Non amo le donne che vogliono competere con gli uomini. Detesto quelle che ammettono orgogliose di avere le palle. Quelle che rivendicano la superiorità femminile e poi si comportano come uomini. Quelle che perfino discutono di calcio con un accanimento che nemmeno l’ultrà della curva più convinta potrebbe tenere testa. Amo il mio essere femminile. La galanteria maschile che si accompagna a un po’ di sana civetteria femminile. La debolezza del mio corpo rispetto alla forza del mio uomo. La mia totale ignoranza in materia di motori, tubature, fili cavi e cacciaviti. Adoro avere bisogno di lui, anche se saprei cavarmela benissimo da sola. La femminilità nel camminare, nel vestire, nel sorridere, nell’essere. La furbizia di noi donne, la nostra innata propensione alla seduzione, la capacità di farli capitolare, sempre, la vocazione alla maternità. Dovremmo cullarle tutte queste cose, invece di renderci androgine, perché è questa la nostra forza. Imitare gli uomini solo nella capacità di stringere legami tra di loro, che noi riusciamo spesso a rovinare tutto per invidie, gelosie, stupide rivalità. Alleate sui nostri tacchi 12, fiere della nostra essenza, inguaribilmente innamorate degli uomini e del loro essere maschi. Così, ve lo garantisco, avremo davvero il mondo ai nostri piedi….
Oggi no
Oggi è stata una giornata uggiosa e io non amo la pioggia. Domani mi viene il ciclo. E nel mondo animale non c’é essere più aggressivo della femmina mestruata. Per cui stasera sono girata, e sdraiata accanto a mio figlio febbricitante, perché ovviamente una giornata storta che si rispetti ha almeno una delle creature indisposte, ecco qui sdraiata ho stilato un elenco mentale delle cose che ultimamente non sopporto più. O meglio che mi stanno sulle palle. Che gli eufemismi li lasciamo alle giornate sì. L’ipocrisia. Peggiore di tutti i sette peccati capitali messi insieme, è la regina che domina il nostro quotidiano. È il trionfo delle teorie pirandelliane sulla maschera. Che ci fosse uno coerente, diretto, sincero, trasparente. La bella faccia davanti e dietro un taglio e cucito che neanche Rakam. Mi fa schifo l’ipocrisia almeno quanto la pretesa di prendermi per i fondelli con sorrisi di circostanza. L’invidia. Non la capisco, non la sento, non la tollero. Una fatica inutile quando potreste farvi su le maniche e lavorare per ottenere ciò che è oggetto di invidia. Ma si sa lavorare stanca, invidiare al massimo da acidità e per quello c’é il Geffer. L’insensibilità. O meglio il menefreghismo. Che se gli atteggiamenti di cui sopra ti feriscono saranno problemi tuoi. Se rimani male, se piangi la fiducia tradita dai voltafaccia, se ti fanno sgambetti nel lavoro, se calpestano i tuoi sentimenti, chi se ne frega. Mors tua vita mea. Un totale disinteresse per le emozioni altrui, che se io soffro è tragedia nazionale, se faccio soffrire passerà. E poi in ordine sparso mi stanno sulle palle le fighe di legno, i saccenti, i bugiardi, i leccaculo, gli approfittatori, gli intellettualoidi….e per stasera basta. E scusate. Ma anche le tardone mestruate nel loro piccolo si incazzano.
Palmo
Mi sono svegliata questa mattina con la mia guancia sul tuo palmo. Ho aperto gli occhi ed e stato come se mi avessi accarezzato tutta la notte. Lo fai spesso, accarezzarmi. Un gesto che l’abitudine non ha scalfito, ha arricchito anzi di allusioni che solo chi danza allo stesso ritmo da anni può percepire. La sento ancora la tua mano sulla guancia, a distanza di ore, in luoghi lontani, in mezzo alla gente. Mi dice che c’è un cuore grande in cui far battere il mio, piccino piccino. Che la mano che mi accarezza è anche quella che rialza, sostiene, abbraccia. E soprattutto stringe la mia, nel sorprendente cammino che è la nostra vita insieme ❤️
Film
Non amo il silenzio. E neanche la solitudine. Mi costringono a pensare e a stare con una persona che non sempre riesco a capire. C’è, nel silenzio di una domenica balorda come oggi, il ronzio sordo delle frasi non dette e delle azioni passate, dei se dei ma dei forse. È il silenzio delle seghe mentali che avvelenano il cervello e non portano a nulla. Ci vorrebbe qualcuno con cui condividerlo questo silenzio, perché il silenzio condiviso è spesso metafora dell’amore. Oggi c’è pure poca luce, è tutto rallentato, appannato, come dietro ai finestrini di un’auto mentre fuori piove e tu sei ferma ad un semaforo. E nella penombra del silenzio guardi il film della tua vita. Una pellicola niente male, tanti colpi di scena, numerose svolte, molte comparse, poche figure chiave. E infine la protagonista. Che odia il silenzio, la solitudine, l’ipocrisia, le giornate vuote in cui vivere è solo battito e circolazione, senza un fine, e nemmeno una fine. Sì sto silenzio proprio non lo sopporto. Non fa per me. Non sono zen e neanche meditativa, sono rock e discretamente rompipalle. E allora, come sempre, un paio di jeans e i miei tacchi, e andiamola a cercare questa vita. Che da sola non viene mica. Passa e basta. E, non so a voi, ma a me non basta passare…
5 minuti
Eccoli lì, quei cinque minuti. Quelli che non ti aspetti e ti cambiano la giornata. O addirittura la vita. Il treno che perdi e mentre maledici la tua propensione al ritardo sul binario incontri due occhi che rivoluzioneranno i tuoi giorni. L’attesa al passaggio a livello, dai dai, e cinque minuti passano e il lavoro che tanto anelavi te lo ruba chi non si trova di mezzo due rotaie. Cinque minuti che possono essere estasi o delusione, che si sa in cinque minuti puoi volare o precipitare. I miei ultimi cinque minuti sono stati un volo senza paracadute, ma prima di schiantarmi mi sono svegliata e il tramonto era rosa. Cinque minuti e rotti dura Confortambly Numb dei Pink Floyd, la colonna sonora della prima volta e di tutte quelle degne di note. Cinque minuti o meno il tempo di questo post del sabato sera. Che si sa. Puoi spenderli male o bene. Ma se non li vivi saranno comunque cinque minuti persi….
Volevo scrivere
Volevo scrivere di un tramonto. Ma i tramonti hanno in se’ quel romanticismo velato da nostalgia che oggi preferisco rifuggire. Volevo scrivere del mare. Ma si sa il mare ha in se tutte le passioni dell’uomo, in tempesta, calmo, splendente, cupo, placido, violento…e oggi preferisco evitare la passione. Volevo scrivere del sole, che vedo nell’angolo di cielo di una finestra secolare. Ma si sa a fissare troppo il sole ci si acceca e i suoi raggi scaldano ma scottano pure. Volevo scrivere dell’amore. Ma dell’amore sono piene le pagine, le chat, i social, e terribilmente vuoti i cuori, perché tutti vogliono apparire ma nessuno farsi vedere. Volevo scrivere dei sentimenti, ma si sa i sentimenti valgono infinitamente meno di una bella foto scosciata. Volevo scrivere tante cose. Ma tante cose oggi non vogliono uscire, preferiscono farsi cullare dai miei pensieri. Che in certi momenti della vita la realtà ti svuota e puoi solo cercare di riempire l’animo con i sorrisi che incontri. Con uno sguardo. Con un’emozione. Che riaccende la scintilla e mette nuovo carburante. E a quel punto sta a noi, solo a noi, schiacciare decisi sull’acceleratore.
Fine
Finiscono le cose. L’amore, i progetti, le amicizie. Può trattarsi di un processo lento o di una fine improvvisa, può finire male o bene, resta il fatto che per un po’ ci si sente amputati. Abbiamo investito tanto, forse tutto, ci abbiamo creduto e abbiamo pure convinto altri, abbiamo speso ore giorni mesi magari anni in quello che sembrava la realizzazione di un sogno. E ora siamo qui. Di notte, al buio di una stanza troppo grande per abbracciarci e troppo piccola per contenere tutti i nostri pensieri. A chiederci e adesso? Sconfitti, noi che odiamo le sconfitte, eppure ne abbiamo un elenco così nella nostra storia. Arrabbiati. Delusi. Ma chissà perché come ogni volta, guardando fisso nel buio, notte dopo notte sentiamo dentro che la rabbia cede il passo all’energia, dalle lacrime nasce un nuovo progetto e la voglia di combattere ancora, per se stessi, per gli ideali che nessun amore deluso o lavoro lasciato indietro riusciranno mai a piegare. Perché quello che è stato ci ha cambiato ma mai tanto da dimenticare chi siamo. Migliori ogni volta. Che le cose finiscono. Ma noi no. E dal buio ci sarà di nuovo luce, più viva e psichedelica che mai….
Dart Fener
Richiesta di amicizia di un essere di sesso maschile su Facebook. Ora, io capisco che non sia onesto mettere una foto di Brad Pitt se non siete degli adoni, ma l’immagine di Dart Fener o di un animale esotico anche no. Che neanche mio figlio di 12 anni la metterebbe. Non do l’amicizia a chi almeno non conosco di vista, figurati se la do a Dart Fener o a qualche altro supereroe. Comunque. Mettiamo che l’accetti. Ecco in quel momento nasce l’innamoramento virtuale, durata una settimana circa. Per sette giorni il soggetto in esame mette mi piace a qualunque cosa tu posti. Anche al tuo interesse per l’asta di materassi che hai messo solo perché la fa un’amica di tua mamma. E ovviamente faccini, commenti, addirittura cuoricini. Poi se tu non dai seguito, il più delle volte per fortuna l’innamoramento finisce e Dart Fener cambia destinatario. Con enorme sollievo. Se invece la sventurata rispose, ecco qui so’ cazzi. Perché si entra nella penombra della tresca. Davvero il lato oscuro. Che mi piace non si mette più a nulla, si sa mai che qualcuno veda che hai messo mi piace e ti marchi a sangue. Scusate ma se avete amici, mogli, ragazze, che stanno lì a guardare a cosa mi mettete mi piace, qualcosa non quadra. Non é gelosia o curiosità, è perversione. Ma succede, spessissimo. E allora la principessa Leila saluta e scende dalla Millennium Falcon. Che il mondo è pieno di uomini e l’ipocrisia é da fuggire più della peste. Meglio uno che la batte al bancone del bar, evitando si spera frasi del tipo mi piace parlare con te perché sei intelligente, quando invece è chiaro che ha attaccato bottone per le tette o il lato b. Fatto che diciamo ci lusinga pure dato che spendiamo ore in palestra, davanti allo specchio, in trucco e parrucca non certo per mettere in mostra il nostro cervello. Onestà ragazzi per favore, chiari, diretti, semplici. Che delle palle e di chi si nasconde dietro la maschera di Dart Fener non se ne può davvero più.
Un minuto
Stazione di Copenaghen. Nove del mattino di una domenica di inizio autunno. Vento teso e nuvole che corrono veloci tra il grigio e l’azzurro di una giornata come tante. Scende le scale che portano alla banchina un ragazzo sui vent’anni, jeans neri, maglione nero, anfibi, capelli lunghi, esile come un giunco che questo vento piega facilmente. E piegarsi si piega, incespica, lo sguardo perso di occhi che riempiono un viso che doveva essere davvero bello, ma che è stravolto da qualche sostanza ancora in circolo. Non puoi non guardarlo, così fragile. Non lo giudichi, non lo biasimi, quei pantaloni che fanno fatica a stare su ti fanno solo tristezza in una mattina di vacanza. E poi accade il prevedibile. Un tonfo e lui è lì, tra le rotaie, è inciampato nella sua stessa vita e il cuore ti balza in petto. Ma si rialza, neanche si é accorto, risale la banchina e sta lì, fermo, immobile. Passa un minuto. Arriva il treno. Hai assistito alla messa in scena di tutti i detti popolari sulla caducità dell’esistenza. Un minuto e sarebbe stata tragedia. Anche se la tragedia vera è che lui non se ne è neanche accorto. Guarda il treno, sale, poi scende e mentre partiamo lo vedi allontanarsi con quel passo traballante, funambolo su una corda tesa sul nulla….
Non ho l’età
Non ho l’età. Non ho l’età per gli shorts e le magliettine con fuori l’ombelico. Non ho l’età per i jeans strappati ovunque, peraltro orribili, e per le unghie una diversa dall’altra. Non ho l’età per ballare sui tavoli e per video e foto sceme che i miei figli troveranno in rete. Non ho l’età per fare tardi dal giovedì alla domenica, bevendo e fumando come se non ci fosse un domani. Non ho l’età per tante cose. O meglio, non ho più l’età e quando l’avevo non ho fatto nulla di tutto questo. E non venitemi a dire che l’età è un puro fatto anagrafico che sono palle per giustificare una eterna adolescenza. Che poi io faccia il 90 per cento di tutte quelle cose dimostra che non sono coerente. Ma questa è un’altra storia.