Oggi ho conosciuto Angel. Nel chiostro della Missione di San Diego, mi sono imbattuta in questo iguana, al guinzaglio della sua padrona. Lo teneva in braccio, con la lunga coda che pendeva, un po’ come se fosse un bimbo in un marsupio. E mi sono ricordata di anni fa, quando mi trovavo a Philadelphia per un soggiorno di studio di tre mesi. Avevo fatto amicizia con i ragazzi del quartiere dove viveva la famiglia che mi ospitava e una sera mi avevano invitato a casa di uno di loro a vedere il Football Americano in tv. Gli Eagles, per la precisione. Appena entrata nel soggiorno, mi ero trovata di fronte ad una grande gabbia, illuminata da una lampada, al cui interno c’era un lucertolone, un iguana appunto, che stava pure cambiando pelle. Donroe, il suo padrone, un ragazzone sempre bianco e rosso, lo aveva preso in braccio e me lo aveva fatto accarezzare. La repulsione era molta, lo confesso, ma visto che sono sempre stata curiosa, mi ero fatta convincere e avevo fatto amicizia con l’iguana. Che avevo poi visto tutte le volte che ci trovavamo in quella casa davanti alla tv, con Coors, sandwich, pop corn. E alle spalle un piccolo dinosauro che ci fissava. Così oggi non mi sono sorpresa. Anzi. Ho chiesto alla padrona come si chiamasse. Angel. Ovvio. Come vuoi chiamarlo un animale che sembra un drago?
Il miracolo della natura
Mission to Mars. Non so dove lo abbiano girato, ma la parte meridionale del Joshua Tree Park è davvero simile alle immagini di un pianeta lontano. Con l’unica differenza che, accanto alle rocce aride e scarne, rossicce e grigie, c’è una vegetazione che lascia sbalorditi. Cactus dai cespugli gialli e neri, i Cholla, che colorano le pendici di queste rocce e sono belli e inquietanti allo stesso tempo. Più avanti, improvvisa, un’oasi. Sí un’oasi con palme, uccelli, tanti uccelli colorati, big horn che qui vengono a dormire, roadrunners che anche questa volta non ho visto, i bee bip dei cartoni animati che ogni volta che attraverso il deserto americano spero di scorgere da qualche parte. Natura incredibile quella di questa zona della California. Scendi verso Palm Springs, oasi artificiale, Golf club, negozi, ristoranti, mall, e poi, in mezz’ora, sei di nuovo nel deserto. Imbocchiamo allora la Palm to Pine Highway. Un’ora di geografia inaspettata. L’automobile sale e in venti minuti si passa dalle palme, al deserto, alla prateria, alla vegetazione sempre più fitta, fino ai pini. Che ti guardi intorno e ti sembra di essere in Austria. Davvero. Perfino le case sono baite alpine. Poi inizia la discesa e a ritroso, abbandoni il verde, tutto diventa arido, deserto. Incredibile. A bocca aperta. La natura mi ha sorpreso, anche oggi. Senza fine.
Joshua tree
La strada. Una striscia diritta, che sale, scende, sale, scende. Dolce ma senza finire mai. A lati, la vegetazione che lentamente scompare, la prateria lascia spazio a roccia, sabbia, arbusti. La strada. Continua. Non sai se sei tu a percorrerla o lei a portarti verso la meta. Il deserto del Mojave, quello di Las Vegas per intenderci, della Death Valley. Ma noi puntiamo a sud questa volta, verso il Joshua Tree Park, noi, inguaribili amanti del rock, sulle orme degli U2 e del loro mitico album del 1987. La strada. Ci conduce tra queste piante dal tronco duro e dall’aspetto unico, chiamate così dai mormoni che popolarono queste terre a fine ottocento e che videro nei loro rami l’immagine di Giosuè che leva le braccia al cielo per pregare il Signore. Da brividi. Joshua Tree strega anche noi. Come già aveva affascinato Bono e compagni. Non solo per gli alberi, ma anche per le rocce, levigate dal vento, per i tramonti, unici e affascinanti, per il panorama che si scorge dal punto più alto, Palm Spring, Coachella Valley, e laggiù la via che porta a Los Angeles. La strada. Perché come scrive Kerouac “Dobbiamo andare e non fermarci mai finché non arriviamo.
– Per andare dove, amico?
– Non lo so, ma dobbiamo andare”
Piccola piccola
La natura ci insegna che siamo piccoli. Un semplice componente di un ingranaggio infinitamente più grande. E che tutto il nostro affannarci, per quanto importante, sia una goccia in un oceano. È quello che ho pensato oggi attraversando il Sequoia National Park, toccando gli alberi più grandi della terra, passeggiando a naso all’insù. Più volte mi è sembrato che questi tronchi si animassero, come nelle fiabe, come nel Signore degli Anelli, e con una voce profonda mi raccontassero della loro storia, lunga 3-4 mila anni, di come dall’alto delle loro chiome vedano il mondo cambiare e gli uomini affannarsi per mille cose. Spesso inutili. Loro, che non temono il fuoco, il vento, gli uragani, le malattie. Vecchi vecchissimi. Eppure così solidi da comunicarti un senso totale di sicurezza, di fiducia, a dire che la terra ha tanto da raccontarci e dobbiamo solo sederci e ascoltare ogni tanto. Spegnere tutto e ammirarla. Relativizzare e smettere di pensare che tutto dipenda da noi. Chiudere gli occhi, in silenzio. Come ho fatto io oggi. Piccola piccola, appoggiata a un pezzo di legno, le mani contro la corteccia. Di fronte a un cerbiatto che brucava. Semplicemente felice
Yosemite
Oggi ho passeggiato in una cartolina. O meglio, in un puzzle. Sapete quelli che vi regalano da 3000 pezzi con un panorama mozzafiato e voi trascorrete intere serate a cercare la sfumatura giusta, il verde scuro, l’azzurro del cielo, il bianco grigio delle nuvole? E il risultato è un luogo talmente bello da essere un non luogo, un po’ finto, un po’ fiabesco? Ecco. Lo Yosemite è una continua fotografia da puzzle. Come se fossimo tutti reporter del National Geographic. Gli abeti alti, altissimi, con questi fusti che non finiscono mai. Le montagne granitiche, dalle forme più disparate, imponenti, incredibili, che se non frequentassi le Dolomiti direi che sono sculture mia viste. Le cascate, lungo queste rocce, che ci siamo divertiti a scalare, fino a pozze gelide dove immergere mani e piedi o addirittura tuffarsi, che non si dovrebbe, direbbe la mamma e dovrei dire io ai miei figli, ma quando ti ricapita di pucciare i piedi nell’acqua delle cascate più alte d’America? Gli animali, tantissimi, dagli scoiattoli che si fanno accarezzare, ai coloratissimi uccelli, ai cervi che vedi saltare ai bordi della strada, fino agli orsi e ai puma, che non ho incontrato, e forse meglio così, ma un po’ ci ho sperato. Abbiamo camminato, scalato, inseguito le aquile a naso in su, ci siamo immersi nella natura per chilometri e chilometri in auto, abeti abeti abeti, meravigliati da questa natura che non smette mai di stupire. E che rilassa e rigenera. Come scrive John Miur, che a inizio ‘900 fu uno dei primi attivisti che spinsero a preservare lo Yosemite e la Sierra Nevada
“Lascia che la pace della natura entri in te come i raggi del sole penetrano le fronde degli alberi. Lascia che i venti ti soffino dentro la loro freschezza e che i temporali ti carichino della loro energia. Allora le tue preoccupazioni cadranno come foglie d’autunno”.
Proud to be American
L’America che amo è quella lontano dalle città. Quella delle distese infinite, dei canyon, dei deserti, dei campi irrigati a perdita d’occhio, delle pianure punteggiate qua e là da ranch e da silos per l’acqua. L’America che amo è quella conquistata dai pionieri, dai cercatori d’oro, sí da quei delinquenti pronti a tutto, in cerca di fortuna, in fuga dalla miseria, avanti, sempre avanti, verso ovest. L’America che amo è quella degli indiani e delle loro tradizioni, difese con i denti, tutelate con dignità, riconquistate pian piano e palpabili in ogni angolo di quelle che una volta erano davvero le loro terre. L’America che amo è quella delle cittadine che ho attraversato oggi, vie con poche case intorno, ad ogni angolo una bandiera americana, a ricordarsi chi sono. Sí perché quello che unisce i discendenti dei pionieri, francesi, inglesi, danesi, italiani, spagnoli, tedeschi, irlandesi, e degli immigrati più recenti, messicani, giapponesi, orientali, indiani, ecco ciò che li unisce è quella bandiera. Non una storia come la nostra, lunga duemila anni, ricca, complessa, poderosa. No. No. La loro storia è brevissima, centocinquanta, duecento anni al massimo. Eppure in un tempo breve loro sono diventati un popolo. Unico. Composito da etnie diversissime. Con mille contraddizioni. Ma con un unico credo comune, la patria. Proud to be American. E lo percepisci. Ad ogni angolo. E li invidi. Perché noi che siamo italiani, la culla della civiltà, questo orgoglio non lo abbiamo. Noi che abbiamo una storia comune in fondo, dimentichiamo di chi siamo eredi, di quanti italiani di cui vantarsi ci siano stati, di quanto ci è costato diventare una nazione. L’America che amo è questa. Quella a stelle e strisce. Sulle bandiere, sui muri, nel cuore. 🇺🇸
Alcatraz
Avete diritto a vitto, alloggio, indumenti ed assistenza sanitaria. Tutto il resto consideratelo un privilegio.
(Numero 5, Regolamento del penitenziario di Alcatraz, 1934)
Visitare Alcatraz è un brivido continuo, lungo la schiena e sulla pelle. Merito anche della visita guidata attraverso audioguide, che ti immerge nell’atmosfera di quei muri, tra le celle, tra i detenuti. Senti il silenzio, il freddo, le grida. Percepisci la mancanza di aria, luce, libertà. Guardi fuori e vedi San Francisco, bellissima in questa giornata di sole e vento, inarrivabile per chi stava scontando qui la sua pena. E questa doveva essere davvero una tortura, nell’ora d’aria, raramente concessa, vedere come un miraggio quella libertà così vicina eppure irraggiungibile. Delinquenti della peggior specie ma anche ladri, borseggiatori, scappati da altri penitenziari e relegati qui, nel carcere senza via di fuga. Come dice il direttore a Clint Eastwood nel celebre “Fuga da Alcatraz”, “Alcatraz è una prigione che vanta la massima sicurezza e pochissimi privilegi. Noi non creiamo buoni cittadini, però creiamo dei buoni detenuti”. Al Capone ne uscì matto, alcuni tentarono la fuga, nessuno vi riuscì mai. Una visita che fa riflettere. Che fa capire quanto vale la libertà. Quella libertà che ci appare scontata e su cui non ci soffermiamo mai abbastanza. Perché, come scrive Montesquieu, la libertà è quel bene che ti fa godere di ogni altro bene.
San Francisco
San Francisco mi accoglie in una giornata di sole, l’aria fresca, il cielo azzurro senza nuvole. Una metropoli che non sembra una metropoli. Verde, tanto verde, lungo i viali, nei parchi, nell’ampia zona litoranea. E queste case a due piani, dai colori tenui, che si aggrappano alle strade in salita e in discesa, e sembrano sorriderti mentre le guardi meravigliata, incollata al finestrino dell’auto. Come nel film “Sweet November”, lo ricordate? Che gli Stati Uniti li conosciamo un po’ tutti dai film (e i miei figli ora dai giochi della XBox) e questo li rende a tratti stranamente familiari. San Francisco è anche il Golden Gate, elegante, maestoso, semplicemente bello, su un mare battuto dal vento, solcato dalle barche a vela e lí, in mezzo, Alcatraz. Da brividi. Una città unica, questa. Che non ha l’estensione paurosa di Los Angeles. La frenesia di New York. L’aspetto europeo di Boston. L’estrosità di New Orleans. La freddezza di Chicago. La potenza di Washington. E che pure è anche tutto questo. Una città che sembra europea ma che di europeo non ha nulla. Anzi. È libera, semplice, giovane, beat. Tutto quello che non è l’Europa. San Francisco conquista e affascina. Come una bella donna, struccata, in scarpe da ginnastica, che non se la tira. Ma che, quando sorride, non lascia scampo.
USA 🇺🇸
Ho visitato gli Stati Uniti la prima volta trent’anni fa. Ero una ragazzina eppure ricordo le emozioni di quel viaggio, i grattacieli, i colori sorprendenti della natura, la sensazione che in quel paese tutto fosse grande, le auto, gli spazi, i piatti serviti al ristorante. Sono tornata poi molte volte da allora, periodi brevi, periodi lunghi, nelle città o nei grandi parchi che costellano questo immenso territorio. E ogni volta mi sento perfettamente a mio agio. Sono innamorata degli States, sebbene ne colga le mille contraddizioni. Sono innamorata del profondo senso di libertà che vi respiro. Del rispetto per la propria nazione e delle tante bandiere esposte in ogni casa, locale, palazzo. Dei grandi parchi che offrono panorami senza eguali e delle città, caotiche, luminose, insonni. Di questo popolo caciarone, un po’ come noi italiani, un insieme di razze e di colori, estroverso, esagerato, in tutto. Adoro girare gli Stati Uniti in auto, on the road, dalle strade dritte dritte in mezzo al nulla alle autostrade a cinque corsie di Los Angeles. Conoscere, indagare, provare. Profumi, colori, sapori. Senza sosta. Perché, come dice Kerouac, “Basta seguire la strada e prima o poi si fa il giro del mondo. Non può finire in nessun altro posto, no?”
Carmel e la Beat Generation
L’auto imbocca una via in mezzo ai pini marittimi e sale attraverso ville e cottage eleganti. L’aria è fresca, ormai lontano il caldo torrido di Los Angeles. Il cielo blu, senza nuvole. Ad un certo punto si incomincia a scendere e appare il mare, cobalto ricamato dalla spuma bianca delle onde, gli scogli popolati da gabbiani che paiono in posa per una fotografia. È la stupefacente 17-Mile Drive, strada che lambisce la costa del promontorio di Monterey, che costeggia i campi da golf più belli del mondo e ville da sogno affacciate sulle scogliere. La sabbia è bianchissima, quasi accecante, in un delizioso contrasto con il verde, il giallo e il rosso dei cespugli di arbusti che arrivano fino al mare. Un piccolo paradiso. Cantato da scrittori e poeti della Beat Generation, immagine di quella California che Jack Kerouac definisce “candida come bucato e con la testa vuota“. Perché per loro rappresentava la fine di un continente, dell’East e dei suoi pregiudizi europei, la costa del sole e della libertà, delle notti brave, caotiche, allucinate, al cui fondo quei giovani, santi ribelli cercavano “un’esistenza autentica e il significato assoluto della vita”. Ecco, percorrendo questa strada ho afferrato meglio questa loro visione, mi sono sentita anche io un po’ beat e ho adorato sentirmi così. Immaginando di incontrare Clint Eastwood, altro mito americano e non solo, che qui ha sempre vissuto. E quel suo sguardo, profondo, magnetico, unico, con cui, ne sono sicura, ha più volte fissato questo mare nero in cui nuotano le balene.