La prima volta che l’ho baciato ho capito subito che sarebbe stato qualche cosa di diverso, di importante. Sì, lo so, lo dicono tutti quando credono di aver trovato l’uomo giusto, salvo poi affermare che era solo un’illusione, nel caso la love story naufraghi nel peggiore dei modi. Lo so, eppure è così. Avevo 18 anni ed ero uno scricciolo pieno di dubbi. Era sabato sera ed ero andata alla festa di compleanno di una mia amica in un bel ristorante della mia città. Avevo indossato un tubino nero di velluto che mi faceva ancora più minuta e piastrato i capelli, che portavo lunghi lunghi. Un po’ di trucco e pure un paio di tacchi. Dopo il ristorante avevo raggiunto degli amici da Pepe, una discoteca della zona, o meglio, la discoteca, quella con la musica più bella, quella dove si andava sempre per ballare come matti con la musica del Duli. Il Duli era un dj decisamente figo che ci ha cresciuti tutti con la musica dei Cure, dei Clash, dei 4 no blondes, e poi tutti i grandi, Doors, Stones, Eagles. Si rientrava a casa così sudati da doversi fare la doccia prima di dormire. Ecco, quella sera disco. Un po’ imbustata in quel vestitino, che da Pepe si andava in jeans e maglietta, che poi scattava il momento delle “pogate” e tutti ti spingevano di qua e di lá e dovevi essere comoda insomma. Entrata, lo avevo subito visto. Uscivamo in compagnia insieme già da qualche mese, me lo aveva presentato un amico di un’amica e io ero rimasta folgorata. Lui, niente. In tutti i modi avevo cercato di fargliela capire ma ero un po’ più timida di ora, decisamente più insicura, o forse lui non voleva capire. Altre ragazze intorno, nessuna. Dopo tre mesi di tentativi ero arrivata alla conclusione che fosse gay. Che peccato! Così figo, così interessante. Come al solito, avevo detto alla mia amica, quelli che mi piacciono hanno sempre qualche ma. Però quanto era bello, pensavo quella sera del 30 gennaio 1994! I capelli dritti lunghi fino alle spalle, i jeans stretti, la camicia bianca e quell’aria un po’ assorta che si allargava spesso in un sorriso. Stavo lì in mezzo al casino e lo guardavo ballare e fumare. Neanche mi vede. Una birra in mano, appoggiata in un angolo del bancone, che di ballare neanche a parlarne quella sera: qualcuno aveva rovesciato l’impossibile sulla pista ed io volevo evitare di volare per terra con il mio bel tubino. Ecco che viene al bar e mi vede. E si avvicina. E mi parla. Che mi dice? E chi se lo ricorda? So solo che dopo cinque minuti lui era seduto su di uno sgabello, io in piedi di fronte e mi abbracciava. No, non sembrava gay. E sulle note dei Cure ci siamo baciati. E ribaciati. E non abbiamo più smesso. Poi è venuto fuori che era così ciuco da non stare in piedi e che forse non lo avrebbe fatto da sano. E che non era single, ma aveva una fidanzata a un centinaio di km. Ma poco importa. In vino veritas e alla fine ha scelto me. E quei baci sono diventati il mio vizio quotidiano ❤️
L’uomo con il collare
L’uomo con il collare. È la nuova specie che si aggira negli aeroporti di mezzo mondo. No, tranquilli. Non si tratta di un tentativo di mogli gelose di tenere al guinzaglio compagni fedifraghi. No. Qui l’uomo agisce in totale libertà, ne sono certa. Si muove trainando il suo trolley, tra imbarchi, controllo passaporti, duty free. Sempre con il collare addosso. Ovvero con quella ciambella gonfiabile che serve a tenere il collo dritto quando ci si abbiocca in aereo. Oggetto utilissimo di per sè, ma destinato al volo appunto. Non alla terra. In attesa del prossimo imbarco, invece, l’uomo con il collare non lo toglie. Neppure seduto al ristorante mentre mangia un hamburger. Teme forse di non riuscire a riposizionarlo correttamente? Non riesce più a toglierlo perché si è incastrato come certi pezzi di lego? Aspetta l’arrivo per sgonfiarlo definitivamente e liberarsene? Ha frainteso l’uso e pensa sia l’ultimo ritrovato per la cervicale? Si sente figo? Altroché Emigratis. Non si può vedere. Beve pure il caffè con il collare e rischia di sporcarsi perché non riesce a piegare il collo indietro. Ebbene sí, amici miei. L’uomo col collare batte quello con il borsello e quello con sandali e calze. Quando, per inciso, l’uomo in questione non indossi anche sandali e borsello. In questo caso non si può aggiungere altro. Solo distogliere l’attenzione. Che la cervicale, altrimenti, viene a me 😜
Capirsi è possibile
Non comunichiamo. Non ci capiamo. In una società piena di parole, suoni, post, tweet, chat spesso non riusciamo a far comprendere all’altro ciò che proviamo o pensiamo. È un grande problema. Eppure basterebbe usare lo stesso codice. A scuola ci hanno insegnato che alla base della comunicazione ci sia l’uso di un codice, ovvero di un insieme di segni (parole) che siamo comprese da chi parla e da chi ascolta. Ecco. Noi spesso parliamo una lingua che l’altro non capisce. O non vuole capire. E non perché è straniero. No no. Perché è su un’altra linea d’onda. È straniero di pensiero. Ecco perché ho scelto di scrivere di sentimenti, passioni, vita quotidiana. E di farlo in un linguaggio immediato, diretto, colloquiale. Sui social come nei miei libri. Perché lo so che non è letteratura alta, che dovrei soffermarmi a descrivere, a tracciare tipi psicologici, a narrare vicende con un tono più aulico, letterario. Lo so che il mio blog è leggero e senza pretese, che non è certo un saggio di filosofia o di antropologia o di storia locale, come quelli che pure ho scritto. Che oggi mi sono pure sentita inadeguata per questo, perché tu puoi scrivere meglio, puoi arrivare più in alto. Lo so. Ma io voglio parlare a te. E a te. E anche a te. E voglio farlo in modo diretto e senza peli sulla lingua. Voglio farlo senza sconti. Senza figure retoriche altisonanti. Sì, così. Perché voglio che tu capisca. Che vale la pena. Che la vita è dura ma non c’è nulla di più bello. Che volersi bene è una scelta. Che l’amore è il motore di tutte le cose, quell’Amor c’ha nullo amato amor perdona, per dirla con Dante. Che si deve lottare per raggiungere i propri sogni e che nessuno ti regala niente. Voglio dirti cose semplici, così semplici che ce le dimentichiamo. Come mi ha insegnato mio papà, che, dirigente d’azienda a livello internazionale, parlava in dialetto ai suoi dipendenti. Perché era il veicolo più diretto e perché così si capivano alla perfezione. I paroloni sono spesso vuoti e i grandi capolavori contemporanei sono letti e compresi da pochi. Io voglio regalarti parole piccole ma piene, che ti penetrino nel cuore e ti spingano all’azione, parole semplici che puoi donare ad altri. Per comunicare con altri. Per capirsi meglio. Ti dono questo. La mia mano. Il mio cuore. La mia anima. Semplicemente.