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La ragazza sul tappeto

Aveva i capelli lunghi, raccolti in una coda. Gli occhi erano neri, piccoli ma intensi, veloci e irrequieti. Correva su quel tapis roulant come se fosse seguita da un branco di lupi. Ma i mostri li aveva dentro. Quei mostri che avevano iniziato a tormentarla un anno prima e che all’inizio sembravano i migliori amici possibili. Erano apparsi d’improvviso una mattina, mentre si guardava allo specchio, prima di andare a scuola e le avevano fatto notare che quei pantaloni sarebbero stati meglio se le gambe fossero state più sottili. Erano tornati poi il giorno dopo, mentre studiava,e le avevano fatto notare il giornale di moda della mamma, con quelle modelle filiformi. Avevano iniziato a sfidarla, lei, che era la prima della classe, la figlia modello, così perfetta agli occhi degli altri, ecco, lei, perché non prendeva controllo del suo corpo? Perché non lo modellava come dicevano le sue amiche? In fondo era facile. Era determinata. E ci sarebbe riuscita. E poi avrebbe dimostrato a tutti che valeva, che era bella, perché aveva sempre pensato di essere trasparente. Ecco, ora l’avrebbero notata. Aveva iniziato a togliere il pane, poi la pasta, poi il gelato che le piaceva così tanto. Aveva iniziato a godere del senso di fame e di stordimento, della testa che girava, delle ossa che si sentivano sull’addome, la sera, prima di dormire. I suoi se ne erano accorti ed erano iniziate le battaglie. Questo l’aveva incoraggiata ancora di più. Li avrebbe fregati quei due, loro, con le loro idee vecchie, con le loro imposizioni, con le loro buone maniere. Mangiava e vomitava. Mangiava e prendeva lassativi. E intanto si spegneva. Non nel corpo, quello sembrava trovare risorse nei suoi diciassette anni. Nel viso. Negli occhi. Nel sorriso. Era sparito da quel bel viso con il naso all’insù. Fin quando un giorno si accorse che non ce la faceva più. Che l’ossessione era insopportabile. Che pensava solo al cibo e a come non mangiarlo. Era un’incapace. Incapace anche di morire. Questo pensava di se stessa piangendo ma per fortuna aveva chiesto aiuto. Pian piano aveva cominciato la terapia e a mangiare di nuovo. Ma era una montagna altissima. E lei inciampava di continuo. Con il tempo aveva capito che lo sport l’avrebbe aiutata ma, nello stesso tempo, continuava a ingannare se stessa. Ecco perché correva su quel tappeto. Perché la pasta della mamma era davvero troppo calorica, perché aveva chiuso con dita in gola e lassativi, ma in qualche modo doveva smaltire. Si sentiva in colpa. Sempre. Con tutti. Con i suoi. Con i dottori. Con se stessa. Con i demoni dentro di lei. Io la guardavo correre e rivedevo me stessa. Avrei voluto dirle qualche cosa ma sapevo che ogni parola era inutile. Corri bambina mia, ma lontano da questa prigione inutile, che ti disegna un corpo fragile, che non ti fa sorridere, che rovina la tua splendida adolescenza. Io so che ce la farai, so che tornerai più bella di prima, so che userai lo sport per ricostruirti e che scoprirai di nuovo quanto è buona una pizza. E da quel momento sorriderai ogni volta che potrai. Sarà così, ne sono sicura.

(5) Commenti

  1. Nel leggere questa tua riflessione, ho pensato che parlasse di una tua esperienza di gioventù, di quelle che hai vissuto e che ti hanno profondamente segnata. Sul finale invece ho notato questa empatia verso questa figlia che ha seguito la provocazione di chi preferisce apparire invece che essere. Il bullismo, la dipendenza da droghe (incluse le sigarette) o peggio dalla tecnologia, fanno parte di uno spaccato decadente della nostra cultura e sono accomunate, oltre che dalla tossicità anche dalla assuefazione. Quel circolo vizioso che inizialmente si presenta come una necessità virtuosa di appartenenza ad un gruppo sociale, quello stesso gruppo che poi ti lascerà nel completo isolamento nell’affrontare quei demoni indotti da una percezione errata della realtà.
    Forse quel correre sul tappeto rappresenta lo stesso sforzo che si compie nel correre sul posto senza andare da nessuna parte. Quella voglia di fuggire da noi stessi pur consapevoli che dal proprio io non ci si può trasfigurare.
    Non ho mai visto di buon occhio chi si rinchiude in palestra e sudare, ma ho sempre ammirato e apprezzato oltre che praticato, attività a contatto con l’ambiente circostante. Il voler correre in bici da soli e scegliere la propria strada consapevole dei rischi che in un ambiente protetto non esiste, va a togliere quel valore aggiunto che è l’esperienza di vita. Il ricordo di quella strada, di quella luce, di quel panorama che mai potrai trovare in una afosa e opprimente palestra. Forse hai voluto esprimere un’allegorica visione del concetto di prigione interiore che oggi si vive, chiusi in una scatola a vivere le proprie vite con coloro che di quella scatola ci hanno fatto la ragione di vita. Quell’isolamento indotto anche dai social che tanto professano la connettività ma che velatamente invece mostrano un lato a noi sconosciuto e di cui veramente ci guardiamo bene ad accettarlo, l’isolamento.

    1. Grazie per il tuo commento. Hai dato spazio a tante riflessioni, aiutandomi ad allargare il raggio del mio pensiero. Io ho semplicemente descritto ciò che ho visto un pomeriggio in palestra e che gli altri neanche vedevano. Non bastano gli occhi, bisogna imparare a guardare con il cuore

      1. Sono contento di esserti stato d’aiuto. Anche a me piace osservare le persone e carpirne i più particolari tratti caratteriali, anche per conoscenza propria della completezza umana. Adesso che hai visto una sfaccettatura di quella donna come ti comporterai?
        Cercherai un contatto, oppure resterai in penombra attendendo il momento giusto per tenderle una mano?

        Spesso in queste situazioni poco si può fare, soprattutto se si è un elemento esterno nella sua cerchia di conoscenze. Ma una parola, o meglio un sorriso e un cortese gesto possono in qualche maniera infrangere le distanze di pensiero a cui sottostiamo nei ruoli che la società ci impone.

        1. Credo che la continuerò a guardare da lontano. Conosco la sua mamma e so che la stanno seguendo

          1. Quindi sai già che è in ottime mani. Sono storie dolorose ed è difficile anche trattarle. Purtroppo questo tipo di dipendenza solo lei può curarla, e se non ne muore sicuramente la fortificherà. Buona fortuna a questa giovane donna!

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