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Vetril

Sistemo cassetti, mensole, armadi nel tentativo di sistemare le mie giornate. Come se un cassetto profumato e ordinato fosse il riflesso di un animo altrettanto lindo e organizzato. Come se una scrivania tersa significasse pulizia interiore. Alla fine, spugna in mano, il mio caos stride con forza ancora maggiore con il profumo di vetril che aleggia intorno. Ennesimo inutile tentativo di combattere l’entropia del mio cuore. Incasinata ma con la casa che sembra quella del Mastrolindo. E son soddisfazioni…

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Vileda

Vi ricordate il coniglietto rosa della Duracell? Quello con la magliettina gialla e i calzoncini che correva, correva, correva anche quando gli altri avevano dato forfait e si bevevano un bel mohito alla sua salute? Perché uno che corre sempre in fondo fa comodo, permette agli altri di riposare. Ecco in alcuni giorni mi sento proprio così. Rosa, con le orecchie e una bella pila sulla schiena. E quando accade vuol dire che davvero sono cotta. Perché mollare, mai. Piuttosto striscio, ma non mi fermo. Chiaro esempio della mia stoltezza, ma follia e stoltezza, genio e sregolatezza sono opposti che segnano il mio vivere quotidiano. Così. Giornata d’autunno con pioggerella che bagna anche attraverso l’ombrello. Fresco, anzi freddino, ma i collant no. Quelli velati sono scomodi e aberranti, una tortura, meglio ritardare finché non è strettamente necessario. Mattina presto e giá in coda sulla vigevanese, poi in tangenziale nella città ducale, dove le freccia è un optional non di serie e il rispetto delle precedenze la domanda sbagliata nel test per la patente. Coda al semaforo, coda al parcheggio, coda al cup dell’ospedale, coda al prelievo, coda di nuovo al cup che il sistema si era impallato, coda alla rotonda sulla via del rientro. Alle nove come idea hai già fatto giornata, ma devi volare al lavoro. In auto, mentre mangio una crostatina, auricolari e telefonata alla mamma, curva un po’ parabolica e il cellulare cade dal sedile passeggero, trascinando anche il tuo orecchio. Cerchi di prenderlo e rischi di uscire per strada, quello dietro strombazza, ecchecavolo già nervosi la mattina presto. Finalmente entri in ufficio, temperatura esterna 15 gradi, interna 10: questa estate fuori ce ne erano 30 e dentro 35. Lo fanno per non avere sbalzi di temperatura, l’avrà consigliato il medico del lavoro. Il prossimo acquisto sono i guanti senza dita stile banco del mercato, che tanto è qui fuori sulla piazza, se hanno bisogno di una mano posso essere multitasking. Alle due finalmente a casa. Coi miei amori. Pausa relax a dirimere una lite su chi debba leggere prima il giornalino, otto telefonate di varie ed eventuali in venti minuti con la classica risposta “no, non mi disturba affatto” alla Verdoniana maniera e nel frattempo lavi i piatti, rassetti, cucini i cavolini di Bruxelles con il peperoncino. All’improvviso ti ricordi che hai promesso ad un amico di aiutarlo a sistemare casa. E le promesse vanno mantenute. Uno sguardo allo specchio e sembri Amelia alle prese con Qui Quo Qua. Per salvare le apparenze almeno le lenti a contatto. Le infili e nel preciso istante in cui il dito tocca lente e occhio ti ricordi del peperoncino, bruciore atroce, fantozzi non è nessuno colli, ma ti è già successo, poi avrò gli occhi più belli pensi. Se, va bè. Esci e poi ti blocchi. Avrà l’occorrente per pulire? Mah. Data la bassa stima dell’uomo alle prese coi mestieri, metti in macchina secchio spazzolone e vileda. Male non fa. Hai un’ora massima per aiutarlo. Si si lo so, avevo detto di più. Ma non ho tempo oggi. Devo correre, correre, correre, coniglietto rosa un po’ affannato. Posteggi sul corso principale e a quel punto, lo dico col senno di poi, lasci il cervello in auto. Scendi, secchiello, scopone e vileda in mano, poi, come se niente fosse, ti fai una mezza vasca e sbirci pure un paio di vetrine. Così. In quel momento suona il telefono. Appoggi il secchiello e cerchi il telefono, che è sempre la caccia al tesoro, lo metti tra collo e spalla e a passo sostenuto raggiungi la casa del tuo amico, mentre parli del più e del meno con tua mamma. Suoni e lui apre, e quando lo guardi ti rendi conto, ma ormai é fatta. C’é poco tempo e si deve pulire no? Che qui altrimenti pensa che sia venuta per un aperitivo e si svicola. Eh no. Solo che poi, mentre sto vileda lo passo e ripasso per terra, pian piano metto fuoco tutto e mi viene da ridere, ma così da dire che improvvisamente mi sento stanchissima. L’adrenalina crolla e il coniglietto si siede per terra con le lacrime agli occhi dal ridere. E se gli altri lo sorpassano poco importa a questo punto. Perché ha raggiunto il suo traguardo. Una sonora risata. E si sa, una risata al giorno….

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Uomini e donne

Lui e lei. in palestra. Storia semiseria di alcune coppie alle prese con i manubri.

I convinti. Li riconosci al primo sguardo. Fisico tonico e tirato, decisamente big lui, sicuramente androgina lei. Perfetti nell’abbigliamento, serissimi nel sollevare pesi da lo show dei record, mai un sorriso. Anzi, come idea, ti convinci che il solo rivolgergli la parola potrebbe rovinare lo studiato allenamento e, dato il bicipite rigonfio, te ne stai alla larga. Anche perchè una volta che hai tentato il dialogo ti sei ritrovata a parlare di riso bianco, integratori, alimentazione equilibrata. No grazie. Eppure invidi la loro affinità, l’attenzione nell’aiutarsi, la sincronia del coro di voci bianche quando lo sforzo diventa eccessivo. Da copertina.

Gli innamorati. Arrivano mano nella mano. Appoggiano gli asciugamani su tapis roulant vicini e non si staccano gli occhi un attimo. Giovani di solito, con le Superga lui, con le magliettine aderenti e i leggings lei, auricolari e messaggini. Tutti gli esercizi insieme, anche se si vede lontano un miglio che della palestra non gliene può fregare di meno, solo una scusa per stare insieme. Anzi, se vengono separati, colgono l’occasione di ogni pausa per una battuta o una chiacchiera, oppure si messaggiano e facciamo prima. Teneri come i fidanzatini di Peynet e a noi sciure abituè ci fanno anche un bel po’ di invidia, sia per l’età sia per tutto questo trottolino amoroso. Love is in the air.

Il macho e la bella. Ovvero i due volti copertina della palestra. Ci sono sempre, spesso non sono solo due, ma tre quattro, insomma quelli che sono, o meglio si sentono, er mejo der body building. Difficilmente fanno coppia, e fanno a gara a schermirsi per gli altrui complimenti. Eppure sotto sotto godono come ricci, che l’allenamento è un impegno quotidiano con l’acido lattico ma soprattutto con l’autostima. Talvolta accade che si abbia notizia di una liasion tra due top fitness performers, naufragata dopo breve perchè condividere uno specchio mentre si allenano è decisamente troppo per loro. Narcisi.

I pensionati. Quelli della mattina. Finalmente si può andare in palestra senza le scadenze lavorative. Ancora in forma, non arrivano nè se ne vanno mai insieme, di solito lui arriva prima, lei se ne va prima. Per mettere su l’acqua della pasta o scaldare l’arrosto. Si allenano separatamente, eppure ogni tanto li vedi sorridersi da lontano o scambiarsi due parole veloci. La quotidianità di una vita tra addominali bicipiti e adduttori. Bellissimi e rassicuranti.

E poi tutti gli altri. Fidanzati, sposati, innamorati, disillusi, annoiati, eccitati, moderati, eccessivi. Uno spasso osservarli tra un esercizio e un altro, alle prese con se stessi e il proprio corpo. Uomini e donne, su un palcoscenico, come quello della Filippi. E il paragone, dato il contesto, è tuttaltro che azzardato…

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Festa dell’Oca 

Ci siamo. Festa dell’Oca. Che non è il nome esatto ma per noi mortaresi è la festa dell’Oca. Un fine settimana di musica, gastronomia, mostre, rievocazione storica. La città che si riempie a dismisura e ci sembra di essere caput mundi. Anche se della gente che viene da fuori poco ci importa. Bello passeggiare e incontrare amici, parenti, compagni di scuola che da anni non vedevi, una carambata dopo l’altra che ci fa sentire più giovani. O più vecchi. Dipende se siete pessimisti o ottimisti. La festa dell’Oca é bella. Punto. Ve lo dice una che con Mortara è sempre in guerra. Ma questi giorni sono la nostra tradizione, essenza, forza. Al bando tutti quelli che fanno gli smorbi, no noi andiamo via, troppa confusione, sempre la stessa roba, che stufa le oche, che rumore, non si trova posteggio. Sì al bando e, lasciatevelo dire, non capite niente. Voi, che non partecipate ai tri pas e poi andate alla notte bianca del comune a fianco, voi che fate i superiori davanti alle bancarelle di salame d’oca e poi andate a mangiare le caldarroste vendute dal pakistano in piazza duomo a Milano, ecco voi vi meritate le domeniche pomeriggio buie e nebbiose, voi i negozi chiusi e le strade deserte che tanto denigrate. Noi un bel panino col salame d’oca, ciccioli a fiumi e gli sbandieratori a lasciarci a bocca aperta. 

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Femmes

Le donne somatizzano. Anche gli uomini, forse. Le donne di sicuro. E se fanno parte della categoria va sempre tutto bene ancor di più. Le riconoscete perché sono sempre di ottimo umore eppure nella borsa hanno una farmacia. A meno che non siano i rari casi mi faccio scivolare tutto addosso, ma quelle ci sono antipatiche di base. Che poi, secondo me, non ci sono, ci fanno. E per quanto ostentino sicurezza, le donne accusano il colpo. Di un’emozione, di un dolore, di una sfiga. E lo fanno con colite, gastrite, cistite, dermatite, tutte ste menate in ite, a cui aggiungiamo anche l’orchite visto che ormai va di moda definirci donne con le palle. La solita fregatura maschilista per affibbiarti più oneri possibili. E noi che ce la tiriamo anche. Riguardatevi il fantastico monologo di Gep nella Grande Bellezza e imparatelo a memoria. Somatizzanti frughiamo nella borsa alla ricerca della chimica che risolve. Si perché siamo tutte vegane, bio, la quinoa e il tofu, e poi senza pastigliette non ce la facciamo. Che per essere in tono hanno nomi francesizzanti, aulin, monuril, furadantin, spasmomen, che nella pochette con il soin per le visage ti illudono che poi sarai più charmant. Anche se dopo averle prese siamo rimbambite, ricoglionite, sempre in ite insomma. E allora mi chiedo, non sarebbe più facile buttare fuori invece che tenere dentro? Esplodere invece che implodere? Certo, lo sarebbe. Ma non saremmo donne. Pardon, Femmes…

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Pensando

A cosa stai pensando? Sto pensando che l’estate é finita, che é stata lunga e calda, e che non ci rassegneremo mai alla poesia dell’autunno, perché alla malinconia preferiamo la gioia abbagliante. Sto pensando che io vorrei vivere in quest’epoca e in quest’ora, magari su una spiaggia con qualcuno a farmi aria, e che per fortuna non ho mai avuto velleità da miss, così mi sono risparmiata risposte sceme a domande idiote. Che tanto lo sapete che non ce la fanno, ma fategliele prima no? Sto pensando che mio figlio che suona il flauto nella stanza accanto è la mia punizione per tutto il tempo che passo a chattare invece che preparare manicaretti per lui. E che, dopo due settimane di scuola media, è già un adolescente spietato che ti guarda con aria da sufficienza mentre tu ti senti figa davanti allo specchio con i tacchi nuovi. Lo stesso che probabilmente pensano certi ventenni a cui noi quarantenni testarde vorremmo ancora piacere. Troppa fatica, minimo risultato. Meglio pancette capelli brizzolati e il colpo della strega del giorno dopo. Sto pensando che ho preso un giorno di ferie per stirare, sistemare casa, dedicarmi all’economia domestica. E che non ho ancora fatto niente di tutto questo. L’economia non la capisco, quella domestica ancora meno, e sto pensando che ho buttato un giorno di ferie cercando ancora una volta di essere quella che non sono. Una massaia. Lacolli massaia. Stona più di mio figlio col flauto. Sto pensando che però non è stato male salutare l’estate volando tra pensieri e poesie, gustando il piacere di un caffè, regalandomi qualche ora di pace, tenendo fuori il mondo. Che le ferie vere sono in fondo queste, otium allo stato puro. E che infine ho scritto questo post per rileggerlo domani sera dopo una giornata incasinata, quando guarderò la pila della roba da stirare e il romanticismo poetico di oggi si trasformerà in litania incazzata del coccodrillo svogliato. 

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Notte

Notte di metà settembre. Così romantica che ricorda il testo di una canzone. O un’opera shakespeariana. Eppure ti giri e ti rigiri nel letto e questo di romantico ha ben poco. Sarà stato l’aperitivo, un colpo d’aria, fatto sta che la testa gira ma il sonno non arriva. A fianco a te un nano di un metro e quaranta che collabora alla tua veglia tempestandoti di calci. Si perché io sono l’invidia di tutte le donne, ho sempre un essere di sesso maschile nel letto, anche quando il mio lui è via. A maggior ragione. Il papi è via, si va nel lettone. E la mamma veglia, come la dea del focolare domestico. Alla quale in modo poco divino, però, dopo un po’ parte un nervoso che più che una dea si sente la Gorgone e vorrebbe impietrirlo. Alla fine mi alzo. Provo ad andare nel suo letto. Sembra funzionare, mi assopisco e faccio uno di quegli incubi da analisi freudiana a vita. Di quelli che ti svegli tutta sudata senza sapere perché. Ma questa è una canzone di Vasco e qui di vita spericolata c’è ben poco. Alle due di un sabato notte di metà settembre, seduta nel letto, decidi di alzarti. Che tanto non vale la pena. Cerchi le ciabatte. Sì le ciabatte, perché alle due di notte se non dormi ti viene addosso un freddo boia. E da legge di Murphy ne trovi una. La cerchi sotto al letto, in bagno, nel corridoio, niente. Il dramma che non l’ho ancora trovata alle dieci del mattino. A volte succede. Pufff scompaiono gli oggetti. E poi li ritrovi nei posti più impensabili. Come le mollette nel frigo, l’orologio tra i cd, le calze in tasca al cappotto. E pure l’intimo dato per perso e ritrovato l’anno dopo al cambio armadi sul fondo di una borsa. E vi giuro che non ho idea di come sia finito lì. Comunque mi alzo senza ciabatte, piedi freddi, e giro come uno zombie per casa. Che fai alle due del mattino? Il cervello funziona male a quell’ora. Cucinare? Mi viene la nausea all’idea. Mestieri? Non sto in piedi. Inciampo pure nel tappeto e vado a sbattere contro lo spigolo del tavolo. Fumetto con fulmini e saette. Decido di leggere. E mi viene sonno. Dieci minuti dopo, però, ancora sveglia. E allora inizi a pensare. E lacolli pensante alle tre del mattino è uno dei danni maggiori. Più del buco dell’Ozono o dell’inquinamento dei fiumi, più della puzza dei fanghi Lomellini e della D’Urso alla domenica pomeriggio. Si perché alle tre del mattino lacolli diventa Gollum e si sente vittima della società e scrive le cavolate che poi leggete voi. E più si gollumizza e più si sveglia e da pasionaria è pronta alla rivoluzione. Alle cinque decido di farmi una tazzurella di caffè, aspetto l’alba, sul balcone, un freddo pazzesco altroché brezza di metà settembre. Ma ormai la notte è andata. Alle sei mi appallottolo a fianco al terrorista nel mio letto, che mi dice “Mamma, ma come sei venuta a letto tardi…” E a quel punto pensi che quei nove mesi avresti potuto spenderli diversamente, che sommando il costo di pannolini, passeggino e amenità varie avresti potuto fare il giro del mondo in quei nove mesi. E stanotte dormire. Nel tuo letto. E non è finita. Alla fine ce la fai. Morfeo si ricorda di te. Passa un’ora e lui chiama. Domenica mattina alle otto. Chiama e insiste. Il telefono nell’altra stanza. “Ti ho svegliata?” Dice con voce suadente. E a quel punto, il giro del mondo cominci a programmarlo. Sì. Da sola. Camera singola. Letto da mezza piazza….

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Upset

Lacolli è il tipo di donna che si incazza. E non uso il turpiloquio a vanvera. Lacolli non si arrabbia, non è per il muso prolungato o la seccatura di bassa lega. Lei si incazza alla grande. Si perché per portarla a livello ce ne vuole. O almeno questo é quello che dice lei. Millanta pazienza e tolleranza, sorrisi e disponibilità, eppure per farla passare da peace and love a Hiroshima basta davvero poco. Per cui non fidatevi del viso sempre aperto e cordiale, delle maniere velatamente dolci, provate anche solo ad annullare un appuntamento e avrete davanti un chiaro esempio di quarantenne nevrotica. Senza mezzi termini. Si perché quando sei giovane tieni dentro, timorosa, temi di sbagliare. A quaranta no. Ferma della tua esperienza di donna madre moglie, magari pure col tacco che stamattina fa un male boia in punta, basta un nulla e parti all’attacco. Sempre con ironia ovviamente, così i più manco capiscono, ma sbotti. E chi c’è c’è. Marito madre figli colleghi, che se poi ti danno della mestruata un po’ di ragione ce l’hanno. Ma tu non tieni dentro più nulla, neppure il vaffa a quello che ti passa davanti in posta o a quello che per l’ennesima volta non risponde ai tuoi messaggi. Se capiti in giornata giusta, preparati al l’uragano Kathrina, rapido veloce ma devastante. Perché dico questo? Perché è così. Passa veloce ma chi si trova in mezzo fa la permanente. E pace se gli piaceva di più la piega liscia. Lacolli si incazza. E adesso non dite che non eravate stati avvisati…

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Giallo e verde

E poi, in un tramonto qualunque di metà settembre, mentre il cielo ha deciso di dire la sua ed è di un blugrigionero che non riesci a definire, ti scopri innamorata di questa terra. Questa terra che hai sempre voluto lasciare e che ti ha tenuto legata a sè come un amante geloso, questa terra fatta di acqua, umida e nebbiosa, che d’estate specchia le montagne e d’autunno si immerge nella nebbia degli antichi cavalieri. Questa terra che questa sera si estendeva dalle Alpi del rosa agli Appennini laggiù, in alto il cielo tempestoso, sotto i campi gialli e verdi, ma di un giallo giallo e di un verde verde, che non lo trovi neanche nella confezione da 36 dei pastelli Giotto. Questa terra che profuma di terra, e non è una rindondanza, profuma di terra che anela la pioggia, e nelle giornate calde d’estate profuma di afa e zanzare, e nella nebbia che bagna i capelli il viso l’anima, profuma di nebbia, che è acqua, vapore, freddo ma non troppo, erba bagnata, un eau de toilette che nessuno potrebbe mai riprodurre ma che non ti togli di dosso. E in fondo ti piace. Perché è la tua e tu sei sua. E sai che ovunque tu vada, per quanto la rinneghi e la allontani, non ci sarà mai paesaggio alba o tramonto che tu senta tuo come quello di stasera. Coi lampi a squarciare il cielo. E la terra lí, immobile, ad aspettare. E il vento che soffia e stacca le prime foglie di un grosso platano…