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Get your kicks on Route 66

On the road vuol dire conoscere da vicino chi la strada la vive e ne detta i ritmi. Ovvero i mezzi che la animano. Sarà che passando da Hollbrook ho rivisto i luoghi da cui è stato tratto il cartone animato Cars, sta di fatto che la mia attenzione è stata catalizzata oltre che dal paesaggio e dal cielo mozzafiato, da tutta la fauna che corre lungo le highways del west. Una fauna cattiva, nel senso che il veicolo americano non ha le forme arrotondate delle nostre auto, ma è spigoloso, materiale, e soprattutto grande. Grandissimo. Sproporzionato. Primi fra tutti i re della Route 66, i tir, con la barra sul muso, i colori sgargianti, il rimorchio in acciaio che riflette le sfumature del deserto dell’Arizona o il cotone delle nuvole bianche in un cielo senza fine: dei bestioni, che dominano la strada, sorpassano a destra e a sinistra, e pensi che se si trasformassero in robot come i Trasformer non ci sarebbe nulla di strano. Accanto a loro, i pick up, larghi il doppio del mio garage, il cassone più ampio del muso, i finestrini sempre abbassati, al volante un tizio col berretto o il cappellaccio da cow boy, che se non ce l’hai il pick up non lo guidi, e nel posto passeggero il cane che mette fuori il muso dal finestrino. Uno sballo davvero. Alcuni patriottici montano la bandiera americana sul retro, altri trasportano amici, tutti, ma proprio tutti, bruciano l’impossibile in quelle marmitte, e il fumo che ne esce non è certo earth friendly. Più educate le auto, che sono solite rispettare segnaletica, limiti, semafori, anche perché qui la polizia se ti ferma ti fa pure la colonoscopia e non è piacevole: grandi anche loro, e molte, moltissime arrugginite, scassate insomma, ma per l’americano in genere è la comodità che conta, sullo stile ci penseremo. A lato della Route, la ferrovia, con i treni merci dai cento vagoni, il vettore posteriore che brucia carbone, il suono continuo: nel terzo millennio ti sembrano ancora i treni della grande marcia verso ovest, quelli attaccati dagli indiani o dalle diligenze. E tra queste lande la cosa non ti sorprenderebbe poi tanto. E infine loro. Le moto. Che nell’ovest sono Harley. In tre giorni non ne ho viste altre. Loro, velocità moderata, alla guida lo standard sono maschi con la coda, la bandana in testa, che qui il casco si vede non si usa, giubbotto smanicato di pelle, pizzetto o almeno baffi, pancetta o panciona, che l’harleysta magro non esiste, e sigaro o sigaretta in bocca. Tranquilli, rilassati. Che faresti subito l’autostop per farti caricare da tipi così, sanno di west e di libertà, sono lo specchio della calma degli indiani e della creatività di queste lande. Sì, senza dubbio, con una Harley get your kicks on Route 66.

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July 4th

Indipendence day, il 4 luglio, a New York. Già a pensarci ti viene la pelle d’oca. La festività per eccellenza per gli americani nella città che ne è il simbolo, ancora di più dopo l’11 settembre. E quando esci al mattino per una passeggiata tra Soho e il Greenwich Village cominci a farti un’idea più precisa del nazionalismo americano. Bandiere ovunque, di tutte le dimensioni, molte di più di quelle che già solitamente colorano ogni strada degli States, palloncini, girandole. Stelle e strisce soprattutto sui vestiti, dal discreto fazzoletto alla maglietta d’ordinanza, fino a total look degni di nota, occhiale rosso e blu, maglietta, pantaloni, scarpe, un tutt’uno che risalta particolarmente nei meno giovani, che sono però i più convinti. Il trionfo del kitsch, dell’americanata, che oggi è perfetta, ci piace un sacco. Times Square è ovviamente il fulcro di tutto questo, con delle signorine che manifestano il loro patriottismo con un body painting che lascia davvero poco all’immaginazione, e per un attimo sembra il Carnevale di Rio, dato il lato B perizomato di tutto rispetto. Ma la vera festa inizia nel tardo pomeriggio, una fiumana di migliaia di persone che si radunano sulle coste dell’East River ad aspettare lo spettacolo pirotecnico che ogni anno Macy’s offre alla città. Pakistani, Cinesi, afroamericani, latini, solo per citarne alcuni, in realtà c’é davvero tutto il mondo sulle rive di Manhattan, Long Island e Brooklyn, tutto il mondo con le sue peculiarità e un inglese che ha mille inflessioni e che rende americani anche noi, quattro turisti italiani che per una sera vogliono sentirsi parte dell’American Proud. A vigilare, dirigere, indicare, organizzare sono i Policemen di New York, centinaia, cicca in bocca, mani sui fianchi, un po’ di pancetta, sorriso ma non troppo, del tipo siamo qui per far festa ma vedi di fare quello che dico, un cordone blu che sembra non finire e che tutto sommato ti dà sicurezza. Nell’attesa ovviamente faccio amicizia con tutto il vicinato, e trovo uno che è appena stato a Florence, a Rome, a Montepulciani, un altro che ha il fratello che lavora a Milano, l’altro a Roma, una volta erano loro lo zio d’America, adesso noi siamo la nonna d’Italia, aggiungi un posto a tavola che ce n’è per tutti. Nell’attesa qualcuno intona l’inno americano ed è brivido collettivo. E poi i fuochi. Tanti, esagerati, colorati, rumorosi, che si riflettono nei grattacieli sul fiume, intrecciando ricami sorprendenti tra le urla di una folla che non aspetta altro che applaudire. A bocca aperta. Amazing.

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Taxi

Che i taxisti newyorkesi siano una leggenda lo sapevi. E lo avevi pure sperimentato. Eppure riescono sempre a sorprenderti. Arrivi in aeroporto dopo otto ore di volo, valigie, marito e bambini al seguito. Un po’ stanca, non fosse altro perché tuo figlio soffre il mal d’aria, oltre al mal d’auto, d’acqua, di treno, insomma di ogni mezzo di locomozione che non siano le sue gambine. E quindi ha già battezzato il suolo americano. Come dire, marchiamo subito il territorio e via. Perciò te lo trascini e sei stanca. Ma hai prenotato il taxi e sei tranquilla, tra poco hotel e nanna. Ti viene incontro il taxista, mezza età, di colore, occhiali sulla testa rasata, camminata alla Will Smith, gomma in bocca. Parte e sei subito più sveglia. Sembra di essere sull’auto scontro dei Brivio il giorno della festa del paese. Slalom tra le auto nell’ora di punta, frena, inchioda, riparte, il tutto con questo movimento dinoccolato della testa che a questo punto capisci non essere una mossa alla Michael Jackson in Moonwalker, ma un tic, che segue l’andamento delle curve che sto Hamilton di Harlem disegna dirigendosi verso Manhattan. E meno male tuo figlio si è addormentato, se no altroché marcare il territorio, che qui è come essere sull’Oblivion di Gardaland. Al semaforo, un leit motiv: inchioda, sputa due o tre volte fuori, beve e strombazza, a volte saluta il taxista di fianco, con uno slang che mi fa impazzire. Un po’ presbite il taxi driver, sì perché oltre a mollare il volante per chattare sul telefono che ha in mezzo alle gambe e a regolarsi l’auricolare dell’ipod, ogni due per tre abbassa gli occhiali dalla montatura rosso chanel very fashion che ha sulla testa per guardare il navigatore, più tecnologia in un metro quadrato che in tutto il negozio della Apple. Eppure pian piano il feeling della grande mela entra dai finestrini, non appena il tuo sguardo viene investito dal tramonto su cui si staglia il profilo del Chrysler Building e dell’Empire, e si posa sui sedili di pelle nera un po’ sudicia e umidiccia di sudore. E cresce la voglia di viversela questa serata newyorkese, mentre la strada si stringe tra i grattacieli e non importa la velocità, il clacson, gli sputi, la nausea che è venuta anche a te. Uno sguardo in alto, eccolo lì, di nuovo, finalmente, il cielo di New York, riflesso nelle finestre dei grattacieli, e già sai che passerai quattro giorni a testa in su. A volare camminando nella grande mela….

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Lacolli on the road….si parte

“Coraggio, lasciare tutto indietro e andare, partire per ricominciare….”…il tormentone di questa estate, perfetto questa mattina mentre guardo i bagagli e mi dico ci siamo. Si parte. Si va. E già questo é energia pura. Perché che sia la scampagnata domenicale o la vacanza da sogno, quello che conta è andare. Come scrive Kerouac “dobbiamo andare e non fermarci mai finché non arriviamo.Per andare dove, amico? Non lo so, ma dobbiamo andare”. Ecco andare, conoscere, esplorare, sperimentare. Un viaggio è tutto questo, una dimensione a sè, che ti permette di lasciare a casa problemi, pensieri, la tua stessa vita, e aprirci una parentesi, una sorta di vita nella vita che comunque ti cambierà. Perché al ritorno non si è più gli stessi, quello che abbiamo visto, sentito, annusato, toccato ci rimarrà dentro e saremo un pochino più ricchi, più forti, rinnovati alla vita. E la realtà avrà tratti più definiti, e la valuteremo con più oggettività, come un bel quadro che manifesta la sua bellezza totale e magnetica se lo guardi da lontano, perdendo di vista i particolari. Quindi tra poco si vola. Lontano. Nella città in cui tutto sembra troppo grande per te eppure hai la sensazione di poterlo possedere, tutto, semplicemente camminando tra mille razze diverse. New York, arriviamo. Lacolli on the road, che il viaggio abbia inizio….

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21 giugno

Estate. Di nuovo. Con le giornate lunghe e le albe luminose che mi buttano giù dal letto che in realtà è ancora notte, perché quando imparerò a tirare bene giù le tapparelle sarà davvero troppo tardi. E così ti svegli con quel raggio di luce poetico che ti colpisce gli occhi, e un po’ ti senti come il Giovin Signore del Parini, peccato che per lui fosse mezzogiorno, per te le cinque e non è un piacere. E ti giri e ti rigiri, a quel punto tanto vale accoglierla questa estate, il giorno più lungo, alla finestra, con il sole che sorge dietro al condominio di fronte e solo tu con la tua fantasia pensi di essere un druido a Stonehenge e vedi la poesia in un’alba Lomellina di una domenica mattina davvero troppo assonnata per essere goduta a fondo. Estate. Di nuovo. Mare salsedine sabbia e la sensazione del corpo che si risveglia. Del sole che penetra così in fondo e scalda anche gli angoli più freddi, e ti scaldi così tanto che al solito ti scotti, perché sei quella che annulla in due giorni mesi di antirughe e trattamento viso, che altroché protezione adeguata, acceleratore che se non sono nera nera non è estate. Fa niente se dopo una settimana sarò come un rettile del Sud America, e se il naso sarà spellato fino a settembre, e se la ruga sulla fronte sarà sempre più profonda. In fondo in quella ruga c’é la bellezza di tutte le estati passate, degli occhi strizzati a fissare il cielo assolato, delle ore a leggere mentre il mare risacca la sua melodia, dei mille pensieri che l’estate porta con sè, leggeri e azzurri come il colore del mondo. Estate. Di nuovo. Sulle note di un concerto rock, che è quello di uno stadio che ondeggia di mille luci, ma anche quello del mio cuore, che non sa battere al ritmo barocco di uno spartito vivaldiano, ma risuona sempre come i piatti della batteria di Will Hunt, e non sempre è facile ballarci a ritmo. Estate. Di nuovo. Benvenuta…  

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Tempo

Un po’ che non scrivi mamma, mi fa notare il Lorenzino. Si un po’. Perché non si scrive a comando, perché ci vuole un motivo, un’idea, una situazione. A volte se ne hanno talmente troppe che il cervello non riesce a rielaborarle. O talmente poche e banali che condividerle in fondo non avrebbe senso. Che la banalità è davvero stucchevole, come l’ovvietà e le frasi sul tempo atmosferico. Meglio il silenzio. Il caro trascurato sminuito silenzio. A meno che non siate zen, bio, yoga, insomma una di quelle parole corte che vanno tanto di moda. Chissà perché non mi sono mai piaciute le parole corte, o le troncature, e adesso invece si parla di pale, ape, we, e chi più ne ha più ne metta. Brevi e rapide come il tempo che abbiamo da dedicare agli altri. Il tempo di una spunta su whatsapp, anzi wa, di un messaggio, msg, in cui autoreferenzialitá é un obbligo, talvolta chiosato da un “e tu tt ok?” che sa tanto a me di telochiedomanonmenefregauntubo. A me chissà perché piacciono le parole lunghe, le telefonate, le lettere, per intenderci non abc, ma le lettere con carta e penna oppure anche le buone vecchie mail. Ascoltare, anche, sapete quella cosa che si fa quando qualcuno ti racconta una cosa e cerca un confronto, ecco ascoltare, per lui, per lei, senza mettere subito se stessi al centro. Ma per questo ci vuole tempo, e quello manca sempre a tutti. O almeno così dicono. Secondo me manca un’altra cosa. La voglia, di ascoltare, di dare agli altri, di “perdere” un po’ di questo preziosissimo tempo per un altro, solo perché a questo fa piacere. Ma lo so lo so, se fa piacere agli altri a me cosa torna? Gratis non si fa niente, siamo la società dei consumi e siamo pure in crisi, ci mancherebbe. Figuriamoci pensare a cosa possa far piacere agli altri e magari a noi costa fatica e tempo, perché sbattersi? Tanto poi mando un messaggino con bacino e cuoricino ed è lo stesso, funziona così. Bè si avvisano i lettori che le faccine gialle di whatsapp sono davvero carine ma piuttosto itteriche in onestà, e che il tunnel carpale della chat preferirebbe essere sostituito dalla bocca secca per le chiacchiere, a cui si potrebbe ovviare con una buona birra insieme, o anche per quella ci vuole troppo tempo?

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Programmi

Settimana senza consorte. Viaggio di lavoro. Ti mancherà un sacco, gli dici mentre esce di casa il lunedì mattina. In realtà hai già un programmino niente male. Che, non fraintendete, sarò contenta al suo ritorno, ma dopo ventun anni di assidua frequentazione uno stacco ogni tanto vivifica il rapporto. Lo hai letto anche su qualche rivista, pagine de l’esperto risponde. E in effetti. Che poi il programma si risolve in una serie di dopocena con amiche a ciacolare, al massimo un aperitivino. Anche perché ovviamente ho con me gli altri due maschi della famiglia, a cui non sembra vero di avere la mamma tutta per sè. Che la sindrome di Edipo non è mica cosa da poco. E nell’agenda settimanale inserisci pure il rosario del mese Mariano, a redenzione dei prosecchi che hai intenzione di berti nelle altra sere. Ma quello che non sai é che il suddetto Rosario sarà l’evento della settimana. Si perché le chiacchierate serali saltano come birilli per mille contrattempi, l’aperitivo si riduce prima a un caffè e poi neanche a quello, e ti ritrovi la sera in casa davanti alla tv e meno male c’è Patrick Swayzei che ancheggia in Dirty Dancing a tirarti su il morale, anche se davvero ti senti come Baby, in un angolo. E allora giochi il jolly. L’ultima sera. Locale trendy con i bimbi, sono loro a chiedertelo e ben venga. Vai sul sicuro. Inviti la mamma a venire con te. La mamma non darà buca. E invece anche lei ti da il due di picche salvo poi cedere all’ennesima telefonata. E ci siamo. Ordiniamo, hamburger, patatine, una rossa che riempia il cuore. Musica di sottofondo, chiacchiere con la mamma che è sempre la migliore, due battute con il vicino con cui ricordi tempi andati. Relax. Alla fine la tenacia premia. O così sembra. Per dieci minuti. Il piccolo comincia a dire che ha il mal di pancia, ma sì, adesso passa, mangia, no non passa, avrai preso freddo, sarai stanco, fino sarà colpa della strada e delle curve, manco avessi fatto il passo Gardena. E tu che conosci il pollo, sai che l’idillio è rotto. Cinque minuti e lo vedi schizzare come Mennea in bagno. Già sai. Lo raggiungi ma ovviamente è entrato in quello dei maschietti, e in quel mentre c’è un harleysta uno e novanta per un tot di chili che si incipria il naso. Con nonchalance gli passi accanto, dal bagno tuo figlio emette rumori indicibili, lui ti guarda, e tu sorridi, e ti scappa la battuta, sa il bimbo no sta bene, saranno stati i mojti…che in questi momenti un po’ di ironia aiuta e poi ci sei abituata. In macchina continua la passione, a questo punto le rotonde le prendi tipo autoscontro, ormai la frittata é rotta, l’importante è arrivare presto. E arrivi, scendi, fai scendere tua mamma che plana con delicatezza sul tuo piede zeppato, ma a questo punto dito più dito meno poco importa. In casa, dopo averlo coccolato e sistemato, seduta sul divano, sguardo fisso, una birra, che a questo punto te la sei meritata, senza la forza di andare nel letto. E allora ti metti a scrivere, come al solito, per trovare uno spunto di buonumore, mentre centellini la tua birra e dentro di te brindi al silenzio di questo momento.

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Attimi

C’é un filo che lega Archiloco a Vasco Rossi, Orazio all’anonimo internauta di Tumblr. Mi capita spesso di vagare per internet a spulciare frasi, citazioni, parole, è il grande vantaggio della rete, una biblioteca vastissima a portata di mano, paese dei balocchi per una come me sempre alla ricerca di qualcuno che la aiuti a fissare un’immagine, momento, sentimento. Ovviamente necessita di filtro, perché incappare nella morale becera e sdolcinata, che fa apparire il cartiglio del bacio perugina la summa filosofica mondiale, è davvero facile. Dicevamo il filo. Un leit motiv, un memento quasi, perché se dal settimo secolo avanti Cristo abbiamo bisogno di continuare a ripeterlo vuol dire che mica l’abbiamo capito. O meglio che non lo applichiamo. I più lo conoscono grazie a Robin Williams, Capitano mio capitano, quel carpe diem che campeggia pure sulle magliette, quel vivi adesso che ancora stamattina avrò letto in dieci post su facebook. E mi chiedo allora perché è così difficile, perché poi i paladini di questa filosofia facciano spesso una brutta fine, perché il popolare giorno da leone sia frainteso come smodata ciuca o peggio. Perché io il “doman non v’é certezza” del Magnifico l’ho sempre interpretato diversamente. Più lentamente forse. Non è il nunc est bibendum, è piuttosto un tentativo di allargare il presente e farci stare tutte le emozioni possibili, è piuttosto il godere fino in fondo di ogni attimo e non rimandare, per pigrizia, inettitudine, superficialità. Attimi belli e attimi brutti. Di quelli belli faremo tesoro quando il cielo diventerà scuro, di quelli brutti ci serviremo per attraversare il dolore, perché solo facendolo potremo rialzarci più forti e consapevoli di prima. Centellinare gli istanti, ecco. Soffermarsi a guardare il cielo, sentire i profumi, dedicarsi ad ascoltare una canzone, leggere una poesia, baciare i propri cari, respirare insomma questa vita a pieni polmoni. Corta lunga facile difficile felice triste “ci han concesso solo una vita, soddisfatti o no, qua non rimborsano mai….”