Seratina steak house dopo trecento miglia e rotti di guida. Quattro italiani in un paesino che è una strada con motel, fast food, distributore e il suddetto ristorante. Entriamo e già siamo diversi perché sono le otto e sono tutti al dessert, qui si cena alle sei e la cucina chiude al massimo alle nove. Siamo così subito simpatici alla cameriera che però, visto che vive di mance, si sforza di essere gentile. I miei figli decidono che non ci hanno notati abbastanza e discutono per chi si siede a destra e chi a sinistra. Sì, siamo italiani, e meno male che l’americano è più casinista di noi. Ci sediamo in una sala in cui ci sono altre due tavolate. A questo punto mi sento in uno dei giochi enigmistici del tipo trova l’intruso. Che stasera è mio marito. L’unico senza berretto con visiera. Ben piazzato sul capo durante la cena. Si perché l’americano vero lo riconosci dal berretto. Pensavo fosse proprio dello yankee in vacanza, uno di quegli oggetti che tutte le guide raccomandano sempre di avere a portata di mano quando si intraprende un viaggio. Come la borraccia, il k-way e i fazzoletti. Invece no, il cap, viene indossato al mattino e vietato toglierlo per qualsiasi ragione. Ragione e galateo del vecchio continente ovviamente. In auto, in chiesa, perfino in aereo, cinque ore di volo senza neanche grattarsi la testa o sistemare la visiera. Con l’accordo non scritto che in un gruppo lo devono portare tutti. A questo punto mi chiedo se lo tengano anche per dormire e fare altro, solo che l’immagine dei tizi al tavolo a fianco nudi con il solo berretto in testa é piuttosto ripugnante e la bisteccona con patata al cartoccio che ho davanti non merita di essere rovinata da simili pensieri. Però, però, come era la colonna sonora di nove settimane e mezzo? Live your hat on…magari…