Un giorno ho incontrato una zingara che mi ha raccontato la storia di un amore nato per caso. Con un voce roca e sibilante, il sorriso un po’ sdentato, mi ha parlato di due occhi che per caso hanno incrociato uno sguardo simile, e si sono persi. Persi senza ragione. Persi senza necessità. Persi quando non ci si poteva, doveva perdere. Persi quando tutto il mondo diceva no. Ma loro invece guardandosi ripetevano solo sì. Gli bastava davvero poco in fondo. Sfiorarsi. Ogni tanto. Chiamarsi per telefono. Quando si poteva. Sognarsi. Tutto il giorno, tutta la notte, da sobri, da brilli, da soli, tra gli amici. Quegli occhi si amavano più con il pensiero che con il corpo, perché se il corpo ha catene il pensiero è libero, e a nulla valgono le imposizioni, i controlli, le attenzioni. Il pensiero va dove vuole e per quei due non aveva altro fine se non loro due. La zingara raccontava e io mi perdevo. Li vedevo quei due, lì a sfiorarsi con gli sguardi in mezzo a tanta gente. E come la zingara mi disse poi sapevo che gli sguardi alla fine chiedono di più e il di più a loro era negato. Finiva lì. nonostante i loro sforzi. In una sera in cui lo sguardo non bastava più e la ragione prendeva il sopravvento. La zingara guardandomi mi disse che i due si guardarono per l’ultima volta, appannati dalle lacrime, il fuoco dentro ma la codardia fuori. Perché l’amore è esigente, se è tale. E vuole sempre di più. O tutto o niente. E l’amore nato per caso, cresciuto con forza, ma mai diventato adulto, evaporó. Tra le gocce di una serata di pioggia. Così. Come era venuto.