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Scuola

Si ricomincia. Cartelle pronte, un quintale l’una, che dobbiamo riportare la nostra vita sotto i banchi e un certo peso tutto questo ce l’ha. Siamo rodati ormai, elementari in dirittura d’arrivo, e oggi tutti diremo che sembra ieri che salivano la scalinata per la prima volta. Adesso sono alti come me, che non è un gran traguardo in effetti, e con fare spavaldo rivendicano la loro autonomia. Andiamo a scuola da soli, non vorrai mica accompagnarci, non siamo piccoli. E tu, che mamma moderna, impegnata, scevra da lacrime e pateticismi, che avevi aspettato anni di sentire questa frase, bè un po’ ci rimani male. Che a noi mamme il ruolo di autista o di costumista per la palestra ci rompe, ma ci legittima pure. Piccoli gesti, abitudini consolidate, essere mamma per anni è qualcosa di estremamente fisico, faticoso, lavali, vestili, imboccali, prendili in braccio, oltre che naturalmente necessitare di una organizzazione che il governo di una nazione è più semplice. Le mamme lo sanno, hanno in mano l’agenda, reale o mentale, duemila memo per nonni o baby sitter, che senza di loro non ce la possiamo fare. E adesso un po’ questa fisicità mi manca, si vestono e si lavano da soli, mangiano da soli, stanno (bene) da soli, in casa ore e non sai nemmeno se ci sono, a parte quando si menano, ma anche lì in fondo se la risolvono da soli. E tu ti ritrovi promossa, non sei più manovalanza pura, ma ti rimane il compito gestionale, organizzativo, che include ovviamente la tua dolce metà, a cui invece non deve essere richiesto di programmare, sia mai, ma di eseguire, a preciso comando. Che se non specifichi ti chiama mille volte. Questione di ruoli, dicono. L’ennesima fregatura, dico. Che a me sta storia che l’uomo pensa al massimo una cosa per volta e noi invece siamo multitasking mi sa tanto dell’ennesimo regalo di Eva, che infatti pensando troppo ci ha rovinato in partenza. Ma così è signore, quindi…pronte, via! Buon anno scolastico a tutte le mamme sclero come me!

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Vetro

Solita sfortuna. Ho rotto lo schermo del cellulare. L’avevo in mano e, oops, é caduto. L’ho raccolto, girato e non ci volevo credere. Molto gotico, scheggiato quasi in maniera artistica, un’opera d’arte di valore, dato quello che mi costerà ripararlo, per non parlare della mia fedina da ripulire dopo le inevitabili incursioni tra i santi del mese. Che poi io non ho mai avuto guai con il cellulare. A parte quella volta che ho comperato una cover molto tigre del ribaltabile, maculata con borchie, di una finezza disarmante, che aveva la caratteristica di cuocere il telefono. Era una cover hot in tutti i sensi. Era sempre rovente e nel timore di rovinarlo ho deciso di toglierla. Eh, una parola. Saldata era. Alla fine maniere forti, tagliacarte tra cover e telefono e tutto un lato bello rovinato. Va bè. Per una volta. No, bè, poi aspetta. Poi c’è il capitolo subacqueo. Tuffo carpiato nel water dell’autogrill, che dici ai tuoi figli di non toccare le maniglie della porta dei bagni e tu ti ritrovi con un avambraccio dentro alla tazza con una prontezza di riflessi degna di un supereroe. Che poi voi donne mi capite, vero? Perché gli uomini, tasca davanti tasca dietro fa lo stesso, ma noi no. Jeans attillato che per allacciarlo ti sei dovuta sdraiare sul letto, di quelli che per forza ti tirano su il lato B, è imbrigliato in una morsa, e telefono infilato nella tasca posteriore. Di solito destra. Più veloce da prendere, come una pistola nella fondina. E così garantito che nel momento del bisogno sguscia fuori che è un piacere, e per due giorni phon in mano per rifargli la messa in piega. Ma io ho fatto di meglio. Sciatrice che se la tira pure, abbigliamento tecnico, occhiale Top Gun, e cellulare infilato nel casco, per parlare con le mani libere. Pure mentre sei seduta al tavolino esterno del bar, al sole, e approfitti della pausa per una telefonata. Davanti a una bella scodella di minestrone fumante con würstel. Pluf. Gemusesuppe pure per il telefono. E per il malaugurato dall’altra parte della cornetta che non sa di aver vissuto un’esperienza mistica. Per una settimana ho avuto nella borsa il profumo della cucina della nonna, tra broccoli, patate e piselli. Ah bè poi a parte quella volta che l’ho lasciato sul carrello del metal detector a Berlino e mi hanno chiamata con il dlin dlon “Damen und Herren….”, e poi a parte le mille volte che mi è caduto mentre ravanavo in borsa…ecco bè a parte tutto il cellulare e l’uso che ne facciamo rispecchia il nostro essere….nel mio caso, bè, traete voi le debite conclusioni….

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Sestri

E gira e rigira arriva l’estate e ci troviamo qui. Che non ti senti a posto se una puntatina a Sestri non la fai. Se non respiri l’aria della Baia. Se non mangi la focaccia e la farinata. Se non passi dai Liguria e ti senti sedici anni sul muretto ad aspettare di vedere un paio di occhi verdi. Se non fai un salto al Citto che non è più il Citto di venti anni fa, ma la salita ai Cappuccini ti fa volare nel tempo. Se non cammini nel Carugio a testa in su, a cercare un pezzo di cielo tra le case colorate. Se non arrivi al porto e cerchi la Piscina dei Castelli, e ancora senti la musica della Hanoa Hanoa, del Carnevale di ferragosto, delle serate, tante serate, a ballare sugli scogli. Che non c’è più e fa un po’ tristezza. Se non mangi dal Conte, se non passi dal Gourmet e dal Bistrò, che sembra adesso la pubblicità di tanti locali, ma sono i luoghi del cuore che in un nome racchiudono il senso di tante estati. Se non arrivi a Sant’Anna, le ondone, come a Riva, senza fiato, senza forza, solo quella del mare che ami tanto. Se non giri per Largo Colombo, tanti ricordi, avanti indietro mille volte, e poi ci scappa un caffè da Bocchia. Se non passeggi sulla riva, nella baia grande, e li rivedi tutti lì, i tuoi amici di una vita, la tua infanzia, la tua adolescenza, il tuo pancione, i tuoi bimbi che fanno i castelli e che tra un po’ ricominceranno questo ciclo. Perché Sestri è l’estate, più vita in due mesi che in tutto l’anno, perché è magia e fiaba, sempre e comunque, perché la migliore favola per il premio Andersen è la fotografia della baia al tramonto, una barca che entra, le luci che si accendono, nel silenzio i gabbiani sugli scogli.

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Think

Sondaggio casalingo a tavola. Idea malsana di una nonna a caccia di idee per far divertire i nipoti. Pregi e difetti della mamma, cioè io. Come dire spariamo sulla Croce Rossa e non pensiamoci più. La mamma urla. Ecco sì, in effetti i decibel sono spesso eccessivi. Ma quando vivi con tre uomini coalizzati non hai scelta. Il ricatto vale fino a un certo punto, il ragionamento logico, bè avrebbe senso con esseri che seguono la tua logica, non quella del tantocèlamammachelofaccioafare, le maniere forti anche no, della serie mi faccio più male io. E allora via alle urla, che non ottengo niente lo stesso ma almeno mi sfogo. Poi? Altri difetti? É pazzerella. Canta. Balla. Guida a zig zag. Insomma mi stanno dando della fuori di melone. Che tutti i torti non ce li hanno. Secondo me vogliono vendicarsi per la tavoletta del water. Una storia infame di una donna senza scrupoli. Che in una mattina d’inverno si trova a pulire il bagno. Viakal, Cif e straccio. E, tanto per cambiare, musica a palla nella casa deserta. Think di Aretha Franklin. Che non puoi non ballare, si muovono anche i pali, è energia vibrante e a te piace tanto. Ma tanto. E nell’enfasi del momento ti ritrovi sul water, il viakal in una mano, lo straccio nell’altra a sculettare e a cantare a squarciagola. Spettacolo agghiacciante. Ma tanto sei sola e non è la prima volta. Lo facevi sempre da ragazza nel bagno della taverna, che ha pure di fronte un mega specchio. Si, papà, ero io che spannavo le viti della tavoletta. Outing tardivo di una recidiva. E così succede in casa mia. Fa pure crac. Con aria colpevole scendo dal cubo water e vedo di rimediare. Impossibile. Allora opto per la nonchalance. Magari non se ne accorge. 17.30, famiglia felice a casa. I bimbi in cameretta, io in studio, il padre di famiglia che torna dal lavoro. Ciao cara, ciao caro, bimbi un bacio. Entra in bagno e l’idillio si rompe. Si passa dal tono Oxford snob a porto mercantile in un nano secondo, con bestemmia incorporata. E lì capisci che l’amore di madre non è poi così sconfinato. Fingi di non sapere, lui dà la colpa ai bimbi, un mazzo tanto, e tu minimizzi ma non confessi. La regola base della sopravvivenza di noi donne, negare sempre tutto, anche l’evidenza. Ti senti un po’ infame ma sai che è a fin di bene, il tuo. E che rimedierai con una coccola in più, che loro ti perdoneranno. E invece no. Eccoli qui a spiattellare a tua madre tutte le piccole follie della tua esistenza, le chat, la musica, le parolacce, la guida spericolata. E tu li guardi e in fondo ti viene da ridere, perché hanno ragione e perché sotto sotto speri che anche loro diventeranno così…

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Vera

Palazzo Cambieri. Una giornata uggiosa di quattro anni fa. In biblioteca sotto uno scaffale tra una vita di libri. Il drin del campanello e due persone che entrano. Arrivo. E ti trovi davanti due donne. Mamma e figlia. Sorridenti. Colorate. Gioiose. E il giorno dopo tornano. Ancora così, una ventata di luce nella nebbia di quell’inverno uguale a tanti. E così via, giorno dopo giorno, le conosci, domande, battute, gossip. Che da utenti diventano anima della vita tra gli scaffali, di quelli che ti preoccupi se non li vedi per alcuni giorni, perché fanno parte del tuo quotidiano. E col tempo capisci cosa ti aveva colpito della figlia, di Veruska. È colore, puro e semplice, con i suoi fiori di panno tra i capelli, i cappellini d’inverno, le sciarpone, i maglioni fucsia. Con il sorriso sempre pronto, non la risata, quella poco, ma il sorriso sempre, su un viso bianco come la panna e due occhi in cui si rispecchiano le risaie. E poi scopri che quelle maglie, sciarpe, collane, orecchini tutti colorati li fa lei, che è creatività in essere, che non trova lavoro perché non te la vedi in un ufficio, lei che è aria fresca e vitalità nonostante tutto. Nonostante la stampella che non sai a un certo punto se serve o è un vezzo, gli acciacchi, la schiena, il ginocchio, che la prendi in giro e lei lo sa e non si offende mai. E poi i libri. Che non può leggere solo libri sui vampiri, eddai, su, e allora ci sono quelli di Kristin Gier, due tre quattro per volta, creativa anche nella lettura. Creatività tra i banchetti, finalmente, sorridente, con Patrizia, sempre una parola dolce, a te che invece sei spesso accigliata, sempre con calma, a te che sei una schizzata, sempre gentile in un mondo che pretende e non da nulla. Sei così Vera, lo sarai sempre, anche adesso che con il tuo uncinetto ricamerai le stelle….

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Stelle

“Mamma, come fanno le stelle a stare attaccate al cielo?”” Tesoro, sono abbracciate e legate da fili sottilissimi che le tengono su””E perché ogni tanto qualcuna cade?””Perchè vuole provare a volare da sola, ma questo non è possibile e allora cade sulla terra””E muore?””Oh no, amore, le stelle non muoiono mai. Quando cadono sulla terra si spengono e iniziano a vagare alla ricerca di una loro simile. Alcune si arrendono sui monti e diventano stelle alpine, altre sulla spiaggia e si trasformano in stelle marine, altre ancora tra le rocce e diventano splendidi cristalli. E poi ci sono quelle fortunate, che incontrano una loro sorella. Quando la sentono vicina, la loro luce si riaccende e diventa sempre più viva man mano che la raggiungono””E cosa fanno mamma?””Quando si riconoscono, si abbracciano e iniziano a risplendere insieme e non si lasciano più””E tornano in cielo?””No, bambino mio, nella vita non si torna mai indietro, si può solo andare avanti, come fanno le stelle: abbracciate, percorrono il mondo illuminandolo con la loro follia e poesia.” E preso un sasso dal mare vi disegnarono una stella, piccolo amuleto di una storia senza fine…

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Salento

Mi sono innamorata. Un colpo di fulmine. Come una ragazzina al suo primo appuntamento, come la protagonista di un romanzo d’appendice dell’Ottocento. È bastato uno sguardo nella luce del tramonto di un’estate ancora bambina. Con la tavolozza di tutti i blu del mare, l’acqua punteggiata di bianco della superficie increspata dal vento, mare nostrum, in cui ti aspetti da un momento all’altro le trireme doriche con le loro vele rettangolari. Con il bianco delle case, che la luce di un sole qui più vivo rende ancora più candido, quelle case basse e squadrate, le finestre un po’ arabeggianti, che qui dopo i Greci sono i Turchi ad aver lasciato il segno. Con l’imponenza del castello, forte, massiccio, che all’istante hai capito perché Walpole ne ha fatto il protagonista del romanzo gotico per eccellenza. Con il vento, la tramontana, che ti attraversa da parte a parte e scuote la tua anima, ed è lei che subito ti fa sentire a casa, lei che tanto ti aveva affascinato nel romanzo di Luca Bianchini “Io che amo solo te”, un cult nella tua libreria, un must have e non lo avresti mai detto. Con il profumo della salsedine, del pesce fresco, delle verdure grigliate, degli ulivi, della macchia, che ti chiedi se si può chiudere in una boccetta e portarlo con te nelle risaie e nella nebbia. Con il suono del tamburello, la tarantella, la pizzica, che le feste popolari non sempre le capisci, ma qui è la colonna sonora perfetta, un Morricone da oscar, con il dialetto in cui si risentono le inflessioni degli antichi coloni, e tutto questo per te è magia. Così ho perso la testa. Così mi sei entrata nel cuore, Otranto, e mi sono trovata anche io a camminare su bastioni del castello come fossi un fantasma….

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On fire

Sveglia all’alba, che di dormire oggi non se ne parla. Alle quattro e mezzo stiri una camicia e la mente rimbomba. Rolling Stones, stasera, a Roma. Per giorni hai cercato di evitare il pensiero, adesso però Start me up ti martella nel cervello e l’adrenalina sale. Un bambino che entra a Disneyland o una sedicenne alla sua prima in disco sarebbero meno agitati. Freccia Rossa per Roma. Sembra il treno dell’Oftal, trasporta malati di Rock e non ha bisogno dell’elettricità, perché l’eccitazione collettiva ne produce da corto circuito. All’arrivo non hai bisogno di chiederti dove si va perché basta seguire la fiumana di gente di tutte le età che costeggia il Colosseo, l’Arco di Costantino, calpestando parte di quella via Sacra che hai la certezza che Orazio avrebbe dedicato una Satira a tutto questo. Alle tre sei già nel Circo Massimo, i Fori sullo sfondo, e l’immenso palco che aspetta i suoi dei. Non sai come ma vi piazzate in un posto spettacolare, vista perfetta e inizia l’attesa. Ovviamente fai amicizia con tutti, riesci a farla con un palo della luce, figuriamoci con veterani che hanno assistito al concerto degli Stones l’11 luglio dell’82 quando l’Italia ha vinto i Mondiali. Che sono cose che fanno storia. Che anche tu stasera ti senti parte delle storia. L’adrenalina si mescola allo stordimento del biologico fumato per ore da quelli davanti a te, very relax, peace and love, e alla curiosità per il variopinto scenario umano che hai di fronte. Dal burino palestrato in costume da bagno che fa di tutto per farsi notare, ai reduci di Woodstock con tanto di capelli bianchi lunghi e fascia, alle signore che aho statte attenta che me pesti lì diti…si perché la pressione diventa tanta, mai visto così tanta umanità, un tappeto immenso in attesa. Ed entra John Meyer, cantante country blues, e già è magia. Una chitarra elettrica che incanta, un personale di tutto rispetto, nel tramonto del sole. E poi. E poi arriva lui. Mick Jagger. Tre ossa in croce, il viso che sembra il Gran Canyon, ma inizia a ballare e cantare ed è così l’uomo più sexi del pianeta. Non per dire. Davvero. Non te ne capaciti ma trasmette una sensualità unica, è lui lo show, domina il palco ed è il re dei 70.000 del Circo Massimo. Keith Richards e Ron Woods fumano mentre suonano la chitarra, hai l’impressione che si divertano un botto, con quelle magliettine attillate e quel fisico che è un miracolo delle rehab. Charlie Watts una macchina da guerra, non si ferma un attimo per due ore, ci droga con la sua batteria. Fantastico. Unico. Vita allo stato puro. Esci a mezzanotte e devi tirare le sei del treno. Una Guinness in un pub irlandese, tanto per non farsi mancare nulla, e poi a Termini. Che è chiusa. E sono le tre. Non fai una piega. Davanti all’ingresso, tra un clochard barbuto e un reduce del rock come te, allunghi la tua copertina rossa per terra, il tuo lui a fianco a te, e sopra un’altra copertina, perché bisogna sempre essere chic, anche sdraiati per terra a dormire davanti a una stazione, che se ti vedesse tuo padre gli verrebbe un infarto. LaColli on fire. Roma 22 Giugno 2014. Satisfaction, oh yes.

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Maturi

Vent’anni fa la stessa alba di una notte insonne prima degli esami. Che se ci pensi il ricordo è seppiato, un po’ accartocciato sui bordi, eppure certi particolari rimangono vividi come se fosse successo ieri. L’attesa sullo scalone, il toto tema, i banchi nel corridoio, il prof. di filo che ti dice state tranquilli, andrà tutto bene, e la forte sensazione che non ci creda nemmeno lui. I fogli sul banco e poi più nulla, che scrivere mi ha sempre trasportato altrove e la paura scompare per quelle ore. Un’altra notte insonne, e la versione di latino. Che Macrobio manco sapevi fosse uno scrittore romano, che ti sei sempre chiesta se la macrobiotica centri qualcosa e nel dubbio eviti lei e qualunque cucina che non comprenda una bella fetta di salamin d’la duja. Che quella versione ti sembra talmente facile che ti convinci che hai fatto un disastro, perché tre anni di sudore con una prof di greco e latino che non perdona la virgola omessa, ti hanno decisamente temprato. E poi passano i giorni, il cartellone delle materie, il tuo adorato greco sostituito da fisica, che tanto è la stessa cosa no? Che lì hai capito che le cose vanno sudate, che nulla è scontato, che forza è massa per accelerazione, come se te lo fossi tatuato. Perché la maturità ti dice che devi tirare fuori le palle, sei davanti ad un’incognita e devi uscirne, al meglio. E vent’anni fa non avevi i prof che ti aiutavano, anche con uno sguardo, eri lì di fronte ad estranei e dovevi far vedere che eri matura. Non ci credevi, non lo sei neanche ora, ma dovevi convincere gli altri, come un buon sofista. E questa è la vita, in sintesi, in cui non saremo mai più bravi e più belli degli altri, in cui le cose semplici non ci interesseranno, in cui le battaglie perse in partenza saranno una tentazione troppo forte. La maturità del 94, la nostra maturità…

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Rimbaud

Lo capisci subito, che è un giorno diverso dal solito. Appena metti giù i piedi dal letto, guardi l’ora e sono le quattro e dieci. Sì, del mattino, non del pomeriggio che quella sarebbe stata manna dal cielo. Torni a letto e aspetti, che Morfeo torni dalla pausa caffè e ti riporti nel mondo dei sogni. Niente. Sciopero. Non gli avranno rinnovato il contratto. Allora ti alzi, inutile risvegliare gli istinti di chi ti sta accanto, che alle quattro del mattino rischi pure un due di picche. E di lunedì alle quattro del mattino non è un bel modo per iniziare la settimana. In cucina, caffè  mentre lentamente albeggia. Intorno silenzio, solo le rondini, qualche auto lontano. Ed è quasi poesia. Sì quasi. Perché in questo falso idillio lomellino, si inserisce a ricordarti che non sei a Praia de Pipa il rumore dell’asciugatrice di quelli di sopra, seguito dopo poco da un bisbiglio fra i due e un vadavialcù, che ti ricorda che i veri legami, quelli forti ed eterni sono quelli in cui bisogna essere chiari. Senza eufemismi. Altroché trottolino amoroso. Un giorno diverso, perché ti siedi sul balcone e leggi Rimbaud, l’aria fresca che ti accarezza le vesti, pensieri che si accavallano, la mente che vola altrove. Perché si può. Anche se sei seduta a fianco ai bidoni della differenziata. Anche se la vista è quella di una ciminiera che meglio non farsi domande. Anche se tra poco la magia si spezza e si deve tornare alla maschera del quotidiano. Un libro è questo. Un viaggio. Della nostra anima, della nostra mente. Che ognuno di noi crea, diverso, ogni volta, perché le parole attraversano l’anima e arrivano alla mente che le accoglie in base al sentire di quell’attimo. E il tempo vola, la vita ricomincia senza sapere che sei andata e tornata da un altro mondo, la casa si anima, uno alla volta i tuoi uomini ti riportano con i piedi per terra. Fin troppo. E devi ricominciare a rispondere alle loro domande, necessità. Come quelle del più piccolo, che appena sveglio ti guarda e chiede “Ma Del Piero ha un uccellino ammaestrato?”…eh caro Rimbaud, altroché Battello Ebbro…