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cricolli

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Ritardo

In ritardo. Perennemente in lotta con l’orologio. Colpa dell’agenda che permette di sovrapporre gli impegni e alla fine ti ritrovi a dover fare in un’ora spesa, benzina, visita dal pediatra. Impossibile. Perché non ce la puoi fare, menti perfino spudoratamente a tuo figlio che non ti vede all’uscita della scuola dicendo ero lì dietro non mi hai visto, quando invece sei arrivata con cinque minuti di ritardo, hai posteggiato l’auto in quarta fila, perché hai provato facile.it, ma il posteggio te l’hanno soffiato sotto il naso, altrochè. Come sabato sera. Uscita a due. Lui ed io. L’ultima volta tuo figlio beveva dal biberon e adesso ha il 37 di piedi. Sei quasi emozionata. Lui è pronto, bello come il sole, davanti alla porta, mani in tasca, tu entri in bagno, mi trucco e arrivo. Apri la pochette, che chiamarla pochette è un insulto alla lingua francese, una busta che i Nas potrebbero sequestrarti, simile al laboratorio di Pollock intento nell’action painting. La apri e prendi la terra e questa cade per terra. E’ la terza legge di Murphy, se hai una seratina fashion e sei di corsa, il contenitore della terra cade sul pavimento. E si frantuma. In tanti quadrettini che sembrano i pezzi di un mosaico etnico. A questo punto commetti l’errore di provare a tirarla su con la mano, le tesserine si frantumano, prendi il pennello, lo passi sul pavimento così sei sicura che penetri bene nelle fughe delle piastrelle, però almeno ne recuperi un po’ e riesci a truccarti. Per terra il macello, non vuoi farti vedere, seratina che doveva essere perfetta, provi a pulire con la carta igienica imbevuta di acqua, tutto questo con una minigonna inguinale e il tacco dodici che i funamboli del circo ie fai un baffo. Alla fine, dai, non si vede, ti alzi, ti trucchi, dai sono quasi in orario, ti guardi, sulla maglietta bianca l’impronta della mano Natural Bronze, che fa molto tribale ma alla fine è come quando vai in un negozio a provare una maglietta e, per quanto stati attenta, la sporchi di netto di trucco e poi, con nonchalance la lasci lì e dici che ci penserai…Esci dal bagno, perfetta, lui è pronto, bello come il sole, in effetti non si è mosso, si sarà addormentato?, mani in tasca, le chiavi le prendi tu? A me danno fastidio. Si perché loro escono solo con il portafoglio, al massimo le chiavi della macchina. Noi abbiamo il trolley. Portafoglio, che di per sé è già una borsa, fazzoletti, agendina, che non si sa mai che tu debba vedere che Santo sarà il 6 agosto 2015, astuccio con tanto di micromina e mine, crema per le mani, scaduta perché tanto non la sopporti ma fa chic, salviettine intime, perché nei locali non si sa mai, salvo che poi vai in bagno senza borsa e naturalmente il rotolo è finito, occhiali, assorbenti…ecco gli assorbenti, nella loro bustina verde, viola, azzurra, che ha il potere di uscire sempre per prima dalla borsa quando cerchi qualunque cosa davanti a un estraneo, e poi le medicine, un kit di sopravvivenza anche se vai nella pizzeria sottocasa, e cellulare, ipad, ricarica…mammamia, non sono una donna, sono un marsupiale, la sorella di Babbo Natale. No, anzi, la Befana. Con l’impronta da walk of fame sulla maglia. Che riempie la calza in ritardo, il 7 gennaio, perché il 6 stava pulendo la terra con la scopa….

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La Baia

Ci sono luoghi che ti entrano nella pelle, che sono con te anche se lontani, che in fondo sono te perché la tua anima riflette la loro presenza. E sono mille i motivi perché questo può accadere: la sfumatura di un paesaggio, la poesia di un’architettura, la magia di uno scorcio…e soprattutto le emozioni che questi luoghi racchiudono, i ricordi, le sensazioni, il vissuto che li ha resi così speciali. E tu ti senti completamente te stessa solo qui, a casa, anche se i muri della tua vita sono altrove. Li chiamano luoghi del cuore, ma secondo me sono lo specchio della nostra anima. Il mio è fatto di case colorate, perché io sono piena di colori, ogni giorno diversi, volubili, ma sempre decisi; è fatto di mare, perché amo l’acqua in tutte le sue forme, pioggia, neve, rugiada; è fatto di sabbia, perché camminare a piedi nudi è fantastico, perché calda, fredda, asciutta, bagnata, trasmette sempre sensazioni differenti; è fatto di scogli, perché la vita non è una spianata e ci saranno sempre rocce appuntite che ti tagliano i piedi, ma a furia di camminarci sopra impari ad evitarle…é fatto infine dalle persone che qui ho incontrato e che sono parte inscindibile del mio essere e che loro malgrado sono in parte responsabili di quello che sono…ecco perché questa sarà sempre La Mia Baia

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Compleanno

Festeggio il compleanno. Da sola, per vari motivi. Tutti necessari e inevitabili, ovviamente. Non soffio le candeline, neanche una, neanche la fiamma dell’accendino. Non esprimo desideri, quindi. Nessuno. Neppure che mi crescano le tette. Che ci crederete o no, io ci spero sempre, di svegliarmi una mattina con una bella terza. E non parlatemi di plastica, che con la fortuna della Colli, come minimo ne mettono una di una taglia e una di un’altra, oppure mi casca mentre sono sul tappeto in palestra, che poi devi raccoglierla come fosse una palla da bowling. Ma si dai, stanno in una coppa da champagne..no le mie stanno comode in un bicchierino da sakè di un cinese tirchio. E tant’è. Meno male che c’è il super mega extra push up, un po’ avvilente negli incontri ravvicinati, che tocca tocca sembra la ricerca dell’arca perduta, ma qui il tesoro non c’è. È come se tu uscissi con uno con il parrucchino, e sul più bello ti rimane il ciuffo da rockstar tra le mani. E dai, non si può sopportare. Nessun desiderio quindi. E come per magia le cose iniziano ad andarti bene. Una serie di colpi di fortuna che non ti spieghi. In ogni ambito. I quindici giorni più straordinari della mia vita. Non ho vinto al Superenalotto, ma ho vinto nei sentimenti, nel lavoro, nelle piccole azioni quotidiane. E a chi mi dice sempre di non dire che sono felice, che porta male, rispondo con questo post, che lo sono, che se deve andare male andrà lo stesso, ma adesso, forse per la prima volta in tanto tempo, mi sento forte e sicura. Anche se non ho le tette. Anche se sono più vecchia di quindici giorni fa. Anche se le sfide sono sempre tante e le ferite del passato bruciano sempre. Ma oggi so che Forrest Gump aveva ragione, che la vita è come una scatola di cioccolatini, non sai mai quello che ti capita. E a me, per questa Pasqua, è capitato un piccolo uovo fondente della Lindt, intenso e con un retrogusto che sa di magia…

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Domenica

Domenica pomeriggio libera. Senza figli nè marito. Che quando l’hai saputo ti è preso il panico perché quasi non sapevi che fare. Si perché quando sei abituata a vivere in minoranza in una casa di uomini che conoscono solo due parole, mamma e Cristina, tutta questa libertà non la sai mica gestire. E così parti con la fantasia, come se avessi un mese da sola, non sei o sette ore, la beauty farm, lo shopping, l’happy hour, tutto in inglese perché fa più single. Alla fine decidi di andare a teatro. A vedere il tuo amico pianista. Al ritorno pizza con le amiche. E vai! Partenza in treno nel primissimo pomeriggio. Il primo sole primaverile è caldissimo. Cominci a pensare che il vestitino di lana nero che ti sembrava tanto trendy e gli anfibi, neri pure loro, siano stati una pessima idea. In metro guardi con sufficienza le ragazzine che salgono con shorts e canotta, esagerate, e quelli con le maniche corte. I soliti, che ai primi caldi, mettono le infradito. Che sto stile spiaggia metropolitano mica ti piace, mah. Scendi a San Babila, due del pomeriggio, giornata tersa. Lo stile spiaggia metropolitano comincia a piacerti, molto meno il tuo vestitino nero che attira i raggi del sole come uno specchio abbronzante. Li ricordate? I mega specchi abbronzanti, spalmatona di Lancaster che già sembravi nero, occhialini che ora trovi solo nei solarium ed eritema solare serale garantito? Va bè, non divaghiamo. Via Montenapoleone, non guardi una vetrina, hai fretta di arrivare a teatro, un po’ di fresco, magari. Entri, il bar è già chiuso, lo spettacolo sta per iniziare, la sala è gremita, ovviamente ad aprile niente aria condizionata. Asmòra. Ma lo spettacolo è divertentissimo, ridi un’ora e mezza, e alla fine non hai più una goccia di acqua in corpo. Per fortuna l’amico pianista ti propone un aperitivo. Mezz’ora per arrivare al bar. A piedi. Nel parco. Tra gente in pantaloncini e maglietta, tu che sembri lo iettatore di “Avanti un altro”. Arriviamo. Ordiniamo, due Spritz. Non ci pensi, ti fai una media di Spritz come se fosse acqua del rubinetto. In cinque minuti, a stomaco vuoto. Tu che riesci ad essere brilla con un crodino. A quel punto il caldo non lo senti più, in compenso quando ti alzi ti chiedi se riuscirai a raggiungere la stazione. Da sola. In metro hai dei dubbi, scendi prima e ti fai una mezzoretta a piedi. Funziona. Smaltisci. E a questo punto, arrivata in stazione, capisci che i programmi per la seratina single verranno spazzati via da Trenord. Ritardo, mezz’ora. Binario pieno di gente che sembra la Pentecoste, tutte le lingue tranne la tua. O comunque una che tu capisca. Quando finalmente il treno arriva, hai già telefonato alle amiche, pizza rimandata, hai voglia solo di una doccia. Viaggio di un’ora seduta vicino a tre ragazzini che ballano e cantano a squarciagola Eminem e a un paio di signore rumene che mangiano e sputano. Noblesse oblige. Forse non avresti dovuto fare la passeggiata, forse con lo Spritz in corpo avresti retto meglio anche questo viaggio interminabile. Scendi a Mortara e sei felice, ed è tutto dire. Arrivi a casa e ci sono loro, mamma?!, Cristina?!…oh, adesso si che ti senti libera!

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San Cassiano

Perché lacolli é anche questo…

É notizia di questi giorni la proposta del ministro dei beni culturali e turismo Dario Franceschini per una “convenzione tipo” sul modello di quella firmata dallo Stato per gli scavi di Ercolano con l’americano David W. Packard, in modo da coinvolgere i privati nella cura e nella salvaguardia del patrimonio artistico italiano. “Sfiderò gli imprenditori perché adottino un monumento” queste le parole del ministro. A Mortara è già successo. Da tempo. In una piazzetta del centro, peraltro uno dei luoghi più antichi della nostra città, un edificio dalla storia millenaria, in evidente stato di abbandono, è stato restaurato, riaperto e fatto rivivere dal coraggio di un privato. E non di uno straniero, o di un imprenditore dai grandi pacchetti azionari, come il Della Valle del Colosseo, che vede in queste operazioni un chiaro ritorno pubblicitario. Ma da un mortarese, piuttosto schivo peraltro, che ha deciso, per il solo desiderio di fare un dono alla propria città e alla propria famiglia, di ristrutturare una vecchia chiesa sconsacrata, così piena di ricordi per molti di noi. Si perché l’edificio di cui parliamo è San Cassiano, nell’omonima piazzetta, sede per un secolo della Società Ginnastica La Costanza, dove molti di noi hanno imparato a fare le capriole, a salire la pertica, ad ammirare l’Andrea Massucchi (e l’articolo non è un lombardismo, ma l’onore dovuto ad un atleta che merita di essere ricordato come IL ginnasta di Mortara). Ecco, questo edificio, dopo la costruzione del Palamassucchi, stava cadendo a pezzi. A Pierangelo Colli questo non andava bene. Aveva acquistato la chiesa proprio per cooperare nella raccolta fondi per costruire il nuovo palazzetto della ginnastica e adesso il tetto di San Cassiano faceva acqua da tutte le parti. E non solo. E a lui, per chi lo conosce, le cose fatte a metà non piacciono, i sospesi neanche, figuriamoci una navata piena di piccioni e di calcinacci. E così si è buttato in questa impresa. Nessun aiuto dallo Stato, tanti vincoli dalla soprintendenza. E dopo anni, nel 2010 ha consegnato a Mortara la sala di San Cassiano che abbiamo cominciato ad apprezzare nel tempo per i concerti, le mostre, le degustazioni. Si perché oltre ad averla restaurata, con la sua famiglia, si impegna a farla vivere. Quotidianamente. Ma ancora non era soddisfatto. Restava lo stralcio di un affresco nell’abside, un volto che lo guardava ogni volta, che lo sfidava, come a dire “non vuoi vedere cosa c’è sotto?”. Ma restaurare un affresco voleva dire ancora un volta investire “a vuoto”, senza ritorno economico, c’era l’avere ma non il dare. Ma c’era un dare spirituale che toglieva il sonno e che alla fine lo ha convinto. Mesi di restauro sotto la supervisione dell’architetto Paolo Savio e della Dr.ssa Strada della Soprintendenza alle Belle Arti, il lavoro perfetto delle restauratrici del Laboratorio C.R.D. di Lazzate e un meraviglioso affresco del 1500 ha rivisto la luce. Adesso si che le cose sono state fatte per bene. E sabato 12 aprile, alle ore 10.30, gli affreschi, con la loro storia, le loro caratteristiche e i collegamenti con le altre opere del territorio verrano presentati a San Cassiano. Essere presenti è un obbligo. Perché nel nostro piccolo, a Mortara, abbiamo vinto la sfida lanciata dal ministro Franceschini.

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Tacchi, che passione…

Mattina di primavera. Sole, cielo terso, un’arietta frizzantina che tonifica. La primavera, finalmente. Basta piumini, sciarpone, guanti, anfibi. Hai voglia di vestiti leggeri e soprattutto di tacchi. Alti. Una passione di lunga data, da quando eri un’adolescente sotto misura con una passione per il basket. Per i ragazzi del basket. Una passione che da vent’anni è necessità di colmare i trenta centimetri che ti separano da tuo marito. Si ok. Sono scuse. Un tacco dodici è un tacco dodici. E uno è diverso dall’altro. Ecco perché ne hai sempre bisogno un paio nuovo, perché così non ce l’hai, perché così si abbina al panta giusto, perché quello ti serve assolutamente. E sogni una di quelle scarpiere dove poterli mettere tutti in fila, così da poter dire la frase che tutte noi amiamo alla follia “non so cosa mettere”…ci avete pensato? Siete anche voi quelle della valigia che devi sederti sopra se no non si chiude? In ginocchio? E che quando l’avete chiusa inevitabilmente da un lato esce il lembo di una maglietta e la dovete riaprire? Ecco tutto questo viene fatto solo perché così in vacanza potremo guardare schifate il nostro bagaglio e dire “ecco! non so cosa mettere? Che dici? La maglia blu o la canotta rossa?!?”…anche per le scarpe. Ma questa mattina è troppo bello e mi sento sicura. In due minuti mi vesto, jeans, giacchina e una bel tacco sottile, alto. Senza calze. Perché il gambaletto no, grazie. Esci e dopo cento metri sai già che ora di sera avrai la circolazione delle dita dei piedi azzerate e almeno due vesciche. Ma ti senti in forma. Cammini spedita perché sei abituata così. Anche se è innegabile che il crampo al polpaccio è quasi assicurato. Ti sbirci nelle vetrine e questo aumenta a dismisura la tua autostima. Arrivi in centro. Il porfido è in agguato, non importa, cammini sul marciapiede e ogni due minuti saluti qualcuno, perché è l’ora di punta e tu conosci tutti. Arrivi sul corso principale, caffettino nel bar dell’angolo, te lo offrono pure, ovvio con dei tacchi così. Esci e attraversi sulle strisce. La coda di macchine si ferma e ti lascia passare. Sulle strisce. Sul porfido. Un tacco si incastra tra un sampietrino e un altro. Non rallenti. Ti è già successo, basta tirare. Ma stavolta non viene. Uno strattone. E tu ti ritrovi con il tuo piedino fresco di pedicure sul porfido e la scarpa incastrata. Ohibò. Velocemente ti chini e a fatica recuperi la décolleté. Alzi lo sguardo e fai un cenno con la mano all’auto ferma per scusarti, quello al volante scrolla la testa. Zoppicando raggiungi l’altro lato della strada. Testa bassa. Autostima meno quindici. Infili il tacco e riparti. Perché l’importante è crederci. E tu ancora ci credi. Arrivi in ufficio. Al terzo scalino ti senti molleggiata, lo strattone è stato troppo forte, il tacco si piega e ti abbandona. E tu rimani lì, dodici centimetri di differenza tra una gamba e l’altra, una giornata da trascorrere in quelle stanze. Fingere di avere tutti e due i tacchi e rischiare di passare per matta oltre che una lesione al polpaccio? No. Stare seduta tutto il giorno? Impossibile. Alla fine opti per la versione figlia dei fiori. Scalza. Senza calze. In fondo ti piace stare a piedi nudi. Tiri fuori la camicia dai pantaloni. Look anni settanta. Ti convinci che farai tendenza. Perché l’importante è crederci. Essere sicuri di sè. E tu. Bè. Sì, cioè, in che senso?!

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Etologi

Signora con il cappello di panno e la voce stridula chiede a mio figlio “cosa vuoi fare da grande?” e lui “l’etologo”. Fffiu. Meno male. Non l’hanno scambiato nella culla. È proprio il mio. Avesse detto il calciatore o l’astronauta mi avrebbe messo in crisi. Primo. La domanda di per se è crudele al giorno d’oggi. Illusoria per lo meno. Così uno come me cresce nell’illusione che da grande potrà fare quello che vuole. Nel mio caso l’archeologa. E ci ho pure creduto davvero, fino all’università. Dove invece di spronarmi mi hanno smontato. Non c’é lavoro, non ci sono fondi. Sono passata dalla gobba del cammello di Indiana Jones alle pagine polverose dei tomi del fondo locale della biblioteca cittadina. Come dire che uno vuole fare il pilota di formula uno e alla fine si ritrova a fare il meccanico nell’officina sotto casa. Niente da dire. Sono rimasta nell’ambito. E lavoro. Ma se me l’avessero detto prima magari avrei sognato un po’ meno. Secondo. Sta storia del segui i tuoi sogni. E dove? Butta il tuo cuore avanti e seguilo, ?!? Internet è piena di ste frasi, postate da tutti, uomini e donne di tutte le età. E non dite che non lo avete fatto, come me, almeno una volta. Ma che vuol dire? Io ci sono cascata, oltre che per l’archeologia, per l’amore, l’amicizia, e sì, adesso capite il perché di questo post, sono una sognatrice disillusa. Il peggiore dei soggetti. Sogno deriva da somnium, che ha la stessa radice di sonno, ergo si sogna quando si dorme. Punto. Il resto sono desideri, volontà, aspettative. Non si avvera nulla. Si concretizza al massimo quello per cui ti sei sbattuto una vita. E devi accontentarti. Sempre con il sorriso sulle labbra. Ringraziando per quello che hai. Guardandoti Indi tutte le volte che lo ridanno in televisione e relegandolo ai tuoi sogni notturni. E sopportando la signora che alla risposta particolare di tuo figlio ti guarda con sguardo compassionevole, come a dire, mi spiace, è un po’ strano il bambino…e meno male!

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San Valentino

Sono in crisi. Domani è San Valentino. Un giorno che detesto. È un blocco psicologico, un dramma che mi porto dietro dall’adolescenza. Tempo in cui la festa degli innamorati ha un indubbio valore personale e sociale. In cui un peluche che abbraccia un cuore è un totem da mostrare orgogliosa alle amiche. Anche se è orribile. Anche se è un maialino rosa con un vestitino a pois che ti chiedi se te l’hanno regalato perché ti somiglia. Niente. Non sono mai riuscita a farmi regalare neppure il maialino nudo. Le poche occasioni in cui avevo un fidanzatino venivo regolarmente mollata tra la metà e la fine di gennaio. Non prima di Natale o l’Epifania. No, sul più bello, quando cominciavo a covare l’illusione che avrei avuto il mio Bacio Perugina, con il cartiglio e il cuore trafitto da una freccia di Cupido. A un certo punto ho pensato di aver trovato solo tipi tirchi. Lo facevano per non comperarmi il regalo. Consolazione di comodo, ma mi ha aiutato molto. Venivo mollata, così. Giustificazione di una crudeltà senza fine. Ti lascio non perché non sei carina, ma hai un brutto carattere. Che è una cosa atroce. Se non ti trovano bella puoi provarci, tingi i capelli, metti i tacchi, le lenti a contatto, ti rifai le tette,il naso, gli zigomi. Ma se ti dicono che hai un brutto carattere ti senti senza scampo. Come si fa a cambiare carattere? Che poi con il tempo hai capito che per molti avere un brutto carattere vuol dire non darla via come il pane. In effetti manchi di apertura al prossimo. Negli anni ho sviluppato una vera e propria allergia al 14 febbraio. Mi ammalo. Ancora adesso. Influenza, 39 di febbre, placche in gola. Una goduria. Una settimana a letto. Salva. Sotto le coperte. Abbracciata al cuscino. Con indosso un pigiamino rosa a pois…

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Sci

Se c’è una cosa che adoro fare è sciare. C’è nella discesa sulla neve un senso di libertà, forza e pace che trovo raramente in altre situazioni. Fin da piccola non mi fermano la nebbia, il freddo, la scarsa visibilità, mi basta agganciare gli scarponi agli attacchi per sentirmi viva. E poi ci sono i rifugi, la polenta, la torta ai frutti di bosco, la cioccolata, il bombardino, la stube e i caminetti. Si, tutto perfetto. Anzi no. Una cosina che che non va c’è. E purtroppo è inevitabile. Impellente direi. Il pit stop dello sciatore. O meglio della sciatrice. Perché arriva il momento che ti scappa. E già per noi donne è complicato nella normalità, sulle piste da sci diventa una prova di equilibrismo e ingegno che ci vede spesso sconfitte. Una premessa è necessaria, dal mio racconto vanno esonerate le toilette altoatesine, che sono più pulite e comode del bagno di casa, se non fosse per le sciatrici teutoniche che ci mettono in media dieci minuti in più a liberare il bagno. Ma si sa, loro sono precisi, fanno le cose per bene, e le cose fatte bene vanno fatte con calma. Mah. Località valdostana. Io e la mia dolce metà ci fermiamo in un rifugio. Bagno, a destra. Scendi le scale, come in tutti i rifugi sono in legno, bagnaticce e con una curva, che con gli scarponi e gli occhiali da sole appannati è già una prova. Uomini a sinistra, libero. Donne a destra, coda. Come sempre. Alcune delle amicizie migliori nascono in coda per la toilette, una volta sono riuscita a farmi dare anche la ricetta della pappa al pomodoro, con tanto di scambio di numeri di telefono. Finalmente entro. Loculo un metro per un metro. Freddo. Nessun appendino. Unici appoggi utili il contenitore per gli assorbenti e il contenitore della carta igienica. Nessun appoggio, dieci indumenti da togliere. Esperienza di anni ti hanno temprato. Guanti nello zaino, zaino appeso alla maniglia della porta, giacca vento sopra il contenitore della carta igienica, sperando che non cada sul pavimento che è bagnato di non sai cosa, sarà la neve sciolta, pile con cerniera tolto e tenuto con i denti, bretelle giù che tieni con una mano, mentre con l’altra ti sostieni nello squat delicatissimo facendo ben attenzione a non toccare la tazza. Si perché una delle prime cose che ci insegnano da piccole è mai, mai sedersi sulla tazza in un bagno pubblico. E oggi ti va bene. Più di una volta ti sei trovata davanti, anzi sopra alla turca, che non far cadere le bretelle e centrare nello stesso tempo il buco, beh lì si che è questione di esperienza. Poi lentamente ti rialzi, naturalmente non c’è la carta, ma tanto non riusciresti a prenderla perché è coperta dalla giaccavento. Ti rivesti, ovviamente ti scivola lo zaino, lo becchi al volo e in quel momento i guanti escono e cadono per terra. Amen. Finalmente esci, sali al bar, lui ti aspetta sorridente davanti a un bombardino, probabilmente il secondo dato il tempo che sei stata via, ti guarda e ti dice “mi stavo preoccupando, ci hai messo una vita…” E tu lo fissi, ha ragione, pensi, in fondo quando si tratta di un certo particolare anatomico loro riescono sempre a risolvere la questione più rapidamente e senza neanche spogliarsi più di tanto, basta tirare giù una cerniera, noi no, é più complicato, ci vuole più tempo, e a volte servono nove mesi.

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Social

Basta. Sono in overdose da social e internet. Inizi così, lo fanno tutti, devi stare al passo con i tempi. E poi ti hanno regalato l’iPhone 5, non vorrai mica fargli fare la fine del iPod nano che è nel cassetto intonso da quando hai provato a scaricare una canzone per un pomeriggio e alla fine, umiliata, l’hai riposto nella sua deliziosa scatolina, con la scusa che tanto in palestra chiacchieri e chi ascolta la musica è asociale. Ci crediamo tutti. E così adesso hai il mondo in tasca. Che bello, puoi ricevere la mail ovunque, essere connesso con il mondo, scaricare mille apps, condividere tutto. Che poi magari agli atri non interessa condividere, ma ci piace farci vedere e allora vai di Istagram. E le notifiche? Che una volta notifica sapeva tanto di tribunale, il centro notifiche…siccome sono ordinata, ho assegnato a ciascuno un suono diverso…facebook, twitter, whatsapp, mail, sms, messanger…una compilation ornitologica che suona nei momenti più inopportuni, dal medico come a colloquio dalla maestra, per non parlare del fischio che ha fatto girare un tipo al supermercato e tu vagli a spiegare che è il cellulare, la notifica, il messaggio. Scaricalo tu poi, altro che app. E anche quando è silenzioso vibra. E non è vero che non si sente. Zzz.zzz. Che forse da più fastidio della suoneria. Ecco, la suoneria.Una volta avevamo tutti il Nokia tunes. Ma ci si confondeva, è il tuo? No il mio…e allora vai di festivalbar. E io non potevo essere da meno. Take my Breath away. Ovvero Top Gun. Che romantica è? Se suonasse una volta, se rispondessi subito, forse. Se in coda al supermercato ci fosse Tom Cruise, meglio. E invece suona, suona nella borsa. La mia borsa. Che è quella di una quarantenne tipo. Un quasi trolley, senza scomparti perché altrimenti è facile. Che quando cerchi il piattissimo iPhone (caro Steve Jobs, un po’ meno liscio no, eh? ) tiri fuori tutte le cose piatte della borsa, l’agenda, il portafoglio, i fazzoletti e lui non c’è, si attacca al fianco, mimetico, e intanto Top Gun va avanti e tu vorresti non rispondere. Ma sei connessa. Perché in quell’istante si sommano tutti gli altri drin, bip, squit. Alla fine lo trovi. Rispondi. Lo attacchi all’orecchio tenendolo su con la spalla e con le mani raccatti quello che hai sparso per terra. E lui suona. Bip bip, scarico. Game over.