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Scarpe rosse

Un paio di scarpe rosse. Si lo so, ci vuole ben altro per fermare la violenza contro le donne. Ci vogliono leggi, cultura, tutela, pene certe. Ci vuole una profonda educazione dei nostri figli, un’educazione al rispetto dell’altro e alle sue scelte. Ci vuole un cambiamento di mentalità, che affonda le sue radici nei secoli, e che quindi sarà difficile da estirpare. Ci vuole tanto, tantissimo coraggio da parte delle donne. Ma quello ce l’abbiamo, non preoccupatevi. Iniziamo da oggi, se non lo abbiamo fatto prima. A rispettare noi stesse, ciò che siamo, ciò che pensiamo, ciò che valiamo. Non permettiamo a nessuno di farci violenza, prima di tutto psicologica, uomo o donna che sia. Amiamoci. Rispettiamoci. E oggi indossiamo un paio di scarpe rosse. È solo un gesto. Ma é dai piccoli gesti che partono le rivoluzioni.

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Nel mio mondo

Abito nello stesso posto da quando sono nata, eppure non so niente della maggioranza degli abitanti della mia città. Spesso mi capita che mi dicano “Hai saputo? Ma hai visto questo e quello?” e io non so mai un tubo. Eppure faccio la giornalista, vado a bere il caffè al bar e uso i social. Dovrei essere aggiornatissima. Il punto è che mi faccio i fatti miei. Sento tante cose, pettegolezzi, storie, mormorii. Entrano nel mio cervello ed escono come se niente fosse. Sedimenta solo ciò che conta davvero, che non sono certo le chiacchiere inconsistenti di chi perde tempo a farsi i cazzi degli altri senza guardare a casa propria. Abitudine frequentissima nella nostra società, costume secolare in una piccola realtà come quella in cui vivo. Per cui mi ritrovo spesso a cadere dalle nuvole e fare gaffe epocali su relazioni, separazioni e via dicendo. Perdonatemi, se potete. Non lo faccio apposta. La mia testa è settata per selezionare ciò che mi riguarda ed eliminare il resto. Non è un atteggiamento snob, ma un semplice modo di essere. Un po’ così. Un po’ stile mi faccio i fatti miei, vivo e lascio vivere e, se potete, fate lo stesso con me. Così, tanto per dire.

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Scrivere. E basta

Ho fatto giri immensi in questi anni di vagabondaggio nei social. Ho sperimentato le foto, i filtri, le stories, le dirette, i video, le condivisioni, le stanze, i tweet, i reel. Ho cercato di capire come veicolare meglio i miei messaggi e come arrivare a più persone. Alla fine, torno da dove sono partita. Alla scrittura. Al mio blog www.lacolli.com che è nato quasi nove anni fa e che racchiude tante riflessioni, alcune profonde, altre inutili, altre ancora decisamente trash. Ma scrivere è ciò che mi piace e che mi serve, per razionalizzare ciò che mi accade e per andare avanti, senza deragliare troppo. La scrittura è il mio punto fisso, fin da quando ero una bambina, e mi piace condividerla. Che senso ha scrivere se nessuno ti legge? Se così fosse, mi basterebbe pensare e scrivere dentro di me. Ma io ho bisogno del confronto, degli altri. Perchè odio la solitudine e il silenzio e quando scrivo mi piace pensarvi lì a leggermi e già mi fate compagnia. I social sono scrittura per me. Poi ci sono le foto, ma quelle valgono un pugno di like e un po’ di egocentrismo, proprio di chi come me ha poca stima di sè. Si riparte da lettere e frasi allora. Giorno per giorno. Se avete voglia di seguirmi, mi bastano 25 lettori. Come quelli del Manzoni. Così, tanto per volare basso, come sempre.

Close up view of womans hand writing with pen on notebook on wooden table. Toned image.

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Berlino, 9 novembre 1989

Chi si ricorda quel giorno?
Io benissimo! Davanti al tg, le immagini dei ragazzi a cavalcioni sul muro e la sensazione che il mondo stesse cambiando. Avevo 14 anni, facevo quarta ginnasio e sognavo di diventare Indiana Jones. E quelle immagini furono come benzina sulla mia voglia di conoscere il mondo e di fare nel mio piccolo qualche cosa di grande. La storia degli anni successivi ha messo in luce le tante ombre di questo momento e le difficoltà dei Paesi dell’est sono ancora attuali. Così come la mia vita non é stata certo una puntata della saga del mitico Harrison Ford. Ma allora la caduta del muro di Berlino ci ha fatto sognare. Sognare forte. E i sogni sono il motore dell’umanità.

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Rabbia

Quel momento in cui senti di non poter più trattenere la rabbia che hai dentro, anche se ce la metti tutta, da una vita. Una rabbia fatta di silenzi, di pugni sui muri, di lacrime sotto la doccia. Una rabbia fatta di unghie mangiate, di corse senza fiato, di parole non dette aggrovigliate nel cervello. Una rabbia che esce da tutti i pori, nella vita intensa che ti sei organizzata per non pensare, nelle sfide sempre più altre che ti sei posta. Tutto per non pensare. Tutto per reprimere quella rabbia lì, quella che amareggia il cuore e non ti lascia mai vivere serena. Quella che in fondo è il motore dei tuoi giorni e che devi ringraziare, perchè ti ha spinto sempre più in alto, come una benzina che avvelena ma che dà anche energia. Arriva un momento che non riesci più a contenerla la rabbia. E la sputi addosso al primo che ti capita a tiro e fai dei danni. Quante volte succede, che poi resti sola e dicono che hai un carattere di merda. No, signori, sono troppo buona, non ho un brutto carattere. Se avessi un brutto carattere e le palle, non avrei mandato giù tanti rospi in silenzio, mettendo in discussione sempre e solo me stessa. Facendomi del male per non farne agli altri, troppo impegnati a puntare il dito verso di me, invece di fare un sano esame di coscienza. La rabbia fa male, la rabbia ci rende deboli, la rabbia fa venire la cellulite. E noi ci siamo stancate di tesserla come la tela di Penelope, in attesa di un abbraccio che non arriverà mai. Sappiatelo.

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So di non sapere

Il grande problema del nostro mondo è l’ignoranza, intesa nell’accezione pura del termine. Il non sapere.
Ora, un tempo, gli ignoranti tacevano di fronte a ciò che non conoscevano, segno questo di intelligenza. Perchè è risaputo che un ignorante che tace e ascolta chi ne sa di più, è una persona intelligente e destinata a non essere più ignorante, anzi a diventare lei stessa una in grado di trasmettere sapere.
Al contrario, il saccente ignorante, che non ascolta, non è intelligente e resterà ignorante, oltre a nuocere a chi gli sta intorno.
Oggi, grazie ai social, chi non sa crede di sapere perchè lo ha letto nel post di quello, che riportava le idee di quello, che le aveva sentite da quell’altro. Insomma, la società è piena di ignoranti che credono di sapere e che non sanno ascoltare.
In questo modo, siamo destinati ad un progressivo decadimento, perchè saranno sempre di più gli ignoranti saccenti dei sapienti intelligenti e rispettosi delle idee altrui.
Così i social, in teoria luogo dalle grandissime potenzialità per la diffusione di idee, cultura e innovazione, sono diventati in larga parte una cloaca noiosa di post inutili e pericolosi nella loro inutilità.

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Io

Sono curiosa e testarda, precisa e impulsiva. Tendo ad annoiarmi delle situazioni, dei lavori, della routine. Ho sempre bisogno di stimoli e di novità, perché nulla mi uccide più della monotonia. Potrei mollare tutto e partire solo per un ideale. E tutto ciò mi fa sentire viva, viva come non mai. Al contrario, l’immobilitá mi deprime. Bianco o nero, tutto o niente. Questa sono io.
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Down

Disordinate e inutili riflessioni a margine del problema dei social di ieri pomeriggio. Breve riassunto per chi (tanti, tra chi mi segue, ho fatto un’indagine) non sa nemmeno di che cosa io stia parlando. E questa, lo capirete tra poco, è di per sè già una riflessione. Ieri, lunedì 4 ottobre, dalle 17.30 alla mezzanotte circa, ora italiana, Facebook, Instagram, Whatsapp e piattaforme collegate sono andate in down. Non funzionavano. Praticamente le app di Zuckenberg ci hanno salutato per sei, sette ore. E non solo in Italia, ma anche in Europa e nel resto del mondo. Un grosso problema per chi, con queste tecnologie, ci lavora, tanto che è stata calcolata una perdita di 160 milioni di dollari per ogni ora di down, un miliardo e rotti in totale per l’economia mondiale. Le conseguenze sono state le più diverse e vanno molto oltre quelle di tipo commerciale: molti utenti dotati di apparecchi intelligenti attivati attraverso connessioni Facebook si sono trovati all’improvviso a non poter aprire la porta di casa, accendere la tv, attivare un termostato, entrare in un sito di shopping online. L’aspetto più comico è che per alcune ore nemmeno il personale di Facebook è riuscito a entrare nei suoi uffici perché il «buco nero» che ha colpito il gruppo ha fatto svanire, insieme all’intera architettura di sistema, anche i meccanismi di sicurezza interna, compresi quelli di riconoscimento dei badge dei dipendenti. Fin qui la cronaca.
Ma noi? Che su Facebook leggiamo notizie, postiamo foto di aperitivi, cazzeggiamo scrollando come ebeti davanti al video? A noi che ci importa se sti social non funzionano? Apparentemente nulla. Eppure…
C’è chi s’è incazzato perchè, nonostante la spunta blu, lui o lei non si degnavano di dare risposta al messaggio whatsapp.
Chi si è sentito perso perchè non sapeva cosa fare sul treno, sul metro, in coda al supermercato. Li vedevi lì, con il dito sospeso, che non sapevano cosa fare, cosa cercare. Molti hanno optato per il meteo, ma dopo aver guardato le previsioni dall’Australia al Nepal, si sono stufati. Altri si sono riversati su Twitter, che era l’unico social attivo, e altrettanti hanno attivato Telegram, finora snobbato. Ovviamente Youtube, Youporn, You quello che vuoi, hanno registrato un’impennata di visualizzazioni.
Tutto pur di restare connessi.
Tutto pur di passare il dito sullo schermo.
Che senza il cellulare non riusciamo a stare. Per molti il cellulare è la prima visione del mattino e l’ultima della sera, la prima cosa che si prende quando si esce, il primo pensiero tra gli oggetti da avere con sè in caso di guerra, terremoto, tsunami. E tutto questo spaventa. Siamo dipendenti da un oggetto, che veicola messaggi, che influenza il nostro modo di pensare, parlare, essere. Molto di più di quello che dovrebbe.
E lo sappiamo, oh se lo sappiamo. Da tempo.
Siamo sicuri di essere nel pieno controllo della situazione, ma non è così. Fotografiamo viaggi ed esperienze per postarle, non per conservarle per il futuro. Ci vestiamo, trucchiamo, ci facciamo belli per farci vedere sui social, non per noi stessi. Scriviamo e commentiamo per qualcuno che ci leggerà, di cui non sappiamo nulla, e non pensiamo a condividere queste idee al telefono con un amico o, meglio, davanti ad un bel caffè ad un tavolino del bar. La pandemia ha moltiplicato tutto questo all’infinito.
E noi siamo sempre più schiavi.
Dico noi, perchè io stessa cosa sto facendo? Sto commentando questa situazione su di un social, che è di per sè contraddittorio e anche psichiatricamente valutabile. Ma se voglio lanciare un sassolino nello stagno, devo al momento usare la rete. Altrimenti non esisto.
Questa è la sensazione. Una sensazione che non mi piace.
Da tempo, lo sapete, provo fastidio non tanto per i social, che sono uno strumento interessante e dalle enormi possibilità, ma per l’uso che ne viene fatto.
Per la bassezza della cultura media che ne esce.
Per l’inutilità del 90% dei contenuti.
Per la mancanza di interesse verso quei post in cui si promuove cultura, in cui si stimola la riflessione senza gridare, accusare, inveire.
Perchè un culo viene commentato, condiviso, osannato e un bel post di approfondimento letto nemmeno dai 25 lettori di manzoniana memoria.
Ieri sera ho coltivato l’illusione che avremmo fatto a meno dei social per un po’ più di tempo. Ma stamattina tutto funzionava di nuovo. E non so se sia un bene o un male. Non lo so davvero. Intanto scrivo, posto, uozzappo perchè il lavoro lo richiede.
Ma se mi telefonate o mi spedite una bella cartolina o, meglio una lettera, ve ne sarò grata.
Che la rete degli abbracci è quella che amo davvero.

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Semplicemente me

Ci ho provato tante volte. A non essere me stessa. A essere come avrei dovuto essere. A trattenere entusiasmo, parole, opinioni. A essere meno espansiva, meno eccessiva, meno meno. A stare zitta. Quante volte ci ho provato. Ma non ci riesco. È peggio. Finisce che sono finta e che comunque non vado bene. E allora lasciate che sia come sono. Non posso piacere a tutti. Che almeno piaccia a me stessa.